A fronte di un’Europa che, anche agli occhi degli europeisti più convinti, sembra oggi sempre più asserragliata dietro rigide barricate economiche, esiste una programmazione europea comunitaria, intesa come azione svolta al sostegno di una comunità.
L’Unione Europea definisce ogni 10 anni la strategia che intende perseguire, indicando target sociali ed economici. Dopo il fallimento della “Strategia di Lisbona”, i cui progressi sono stati in parte vanificati dalla crisi, all’inizio degli anni ’10 è stata presentata “Europa2020”, il programma che ci accompagnerà fino alla fine di questo decennio. “Europa2020” poggia su 3 pilastri – crescita intelligente, sostenibile e inclusiva – e persegue 5 obiettivi quantitativi, rispetto ad occupazione, ricerca e sviluppo, cambiamenti climatici, istruzione e inclusione.
Per raggiungerli, ogni 7 anni, l’Unione Europea avvia le faticose trattative che portano alla definizione del Multiannual Financial Framework (MFF). Il regolamento stabilisce i limiti per la spesa dell’UE nel complesso e per settori fondamentali; di anno in anno si decide la consistenza dell’impegno relativo al periodo.
Il budget destinato alla programmazione 2014-2020 era di 1.000 miliardi di euro totali (in media circa 137 miliardi ogni anno), divisi tra fondi diretti e indiretti o strutturali. I primi vengono gestiti a livello comunitario dalla Commissione Europea, dalle Direzioni Generali e dalle Agenzie Esecutive, attraverso bandi e appalti. I secondi, che rappresentano l’80% del budget, si trovano già sui territori degli Stati membri e vengono controllati, a seconda del Paese e del settore di riferimento, dallo Stato e dalle sue Agenzie o dalle Regioni.
Oltre un terzo del bilancio dell’Unione è destinato allo sviluppo regionale e alla coesione economica e sociale: uno degli obiettivi principali è ridurre il gap fra Stati. Questi fondi vengono affidati agli enti locali con il preciso obiettivo di mettere gli imprenditori nelle condizioni di migliorare il tessuto socio-economico del proprio territorio, in un’ottica di convergenza europea da raggiungersi attraverso crescita e integrazione. Dunque, la logica distributiva è basata su un criterio di ripartizione solidale: i Paesi meno sviluppati, il cui PIL pro capite è inferiore al 75% della media comunitaria, ricevono più fondi, al fine di poter raggiungere gli standard degli Stati più ricchi, il PIL dei quali è superiore al 90% della media comunitaria. Considerando anche il Regno Unito, 1 Regione europea su 4 rientra nei territori meno sviluppati.
Nessuna sorpresa nel trovare tra questi i Paesi dell’Est, la Grecia, il Sud Italia e qualche zona spagnola e portoghese. È molto diversa, però, la capacità di accedere ai fondi dei 28 Paesi membri.
L’Italia, con riferimento al ciclo di programmazione 2014-2020, ha saputo ad oggi concludere solo il 6% dei progetti avviati grazie ai fondi strutturali. Il 79% è ancora in corso, mentre il 13% non è stato avviato. Complessivamente, infatti, a fronte di una programmazione totale delle risorse di poco superiore ai 72 miliardi, gli impegni di spesa sono circa 50 miliardi, mentre i pagamenti fino ad ora completati si aggirano intorno ai 20 miliardi, circa il 27% del programmato.
La cause che comportano l’incapacità dell’Italia di accedere ai fondi diretti e impiegare i fondi strutturali già a sua disposizione sono molteplici e tra loro strettamente connesse.
Sia a livello statale che regionale, il problema principale sembra la cattiva comunicazione delle opportunità dovuta alla mancanza di figure che siano in grado di scrivere bandi e appalti. Ad essa concorrono due fattori: l’anzianità e la scarsa dimestichezza con la lingua inglese degli impiegati delle Pubbliche Amministrazioni. Infatti, secondo il più recente Conto Annuale, rilevazione censuaria sulle PA effettuata dal Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, nel 2018 l’età media era di 50 anni e 9 mesi per i dipendenti e 56 anni per i dirigenti. Inoltre, EF, società che si occupa di formazione linguistica, ha elaborato un proprio English Proficiency Index, campionando 100 Paesi nel mondo. L’Italia si colloca al 36° posto di questa classifica, con un livello di competenza medio. Questo dovrebbe comportare la capacità di partecipare a riunioni nel proprio ambito di lavoro e scrivere e-mail professionali su temi conosciuti, ma non leggere un giornale o testi complessi, come possono essere quelli relativi a documenti europei. Guardando soltanto all’area europea, l’Italia è 26° su 33 Paesi considerati, con disparità evidenti sul territorio: Sicilia, Calabria, Molise, Puglia e Basilicata si fermano ad un livello di conoscenza inferiore alla media del Paese. Se poi prendiamo in considerazione l’ultimo sondaggio (2012) condotto dalla Commissione Europea nei 27 Stati all’epoca membri riguardante l’attitudine dei cittadini al multilinguismo, vediamo che la media italiana di conoscenza della lingua inglese è il 13%, mentre quella dei cittadini di più di 50 anni scende all’8%.
A causa della barriera linguistica, l’absorption capacity, qui intesa come la capacità di assimilare le informazioni necessarie alla scrittura di un progetto che passi il vaglio comunitario, cala notevolmente. Questa circostanza, insieme alle difficoltà di digitalizzazione dovuta all’anzianità dei dipendenti delle PA e della tutto sommato modesta diffusione sul territorio italiano di una rete internet efficace, pone un primo grande ostacolo all’accesso ai fondi, sia diretti che indiretti.
Strettamente legata alla questione digitale, è quella burocratica. La Commissione Europea si è costantemente impegnata nella riduzione degli adempimenti burocratici, creando per ogni iniziativa che dà accesso ai fondi diretti una piattaforma ad hoc. La presentazione dei progetti avviene interamente online e, al fine di snellire ulteriormente le procedure, si lavora alla realizzazione di una piattaforma unica per tutti i progetti. Per i fondi strutturali, invece, la burocrazia italiana impone che il progetto venga presentato sia online che in forma cartacea. Ancora, mentre in Europa, se il progetto passa la valutazione, i fondi vengono sbloccati in un tempo medio di 6 mesi, in Italia possono essere necessari fino a 2 anni.
Tuttavia, a difficoltà per così dire oggettive si intrecciano anche dinamiche culturali dure a morire. La logica dei “finanziamenti a pioggia” che ha caratterizzato buona parte della storia dell’Italia male si adatta alle logiche di conferimento dei fondi europei, soprattutto diretti. La ratio distributiva dei fondi è premiale: la Commissione Europea pretende una dimostrazione di eccellenza prima di finanziare il progetto. Inoltre, i finanziamenti sono sempre parziali e mai a fondo perduto: ogni spesa deve essere preventivamente stimata e accuratamente rispettata in fase di realizzazione del progetto. Ancora, non è possibile realizzare profitti. Diventa, quindi, subito facile guardare ai finanziamenti europei come ad una perdita di tempo, anziché ad un investimento, anche in link building.
Difatti, anche se quasi tutte le Regioni italiane hanno un ufficio di rappresentanza a Bruxelles, hanno pochi rappresentanti (es. Sicilia 2, Toscana 5) e tendono ad usufruirne come ufficio di promozione turistica. La mentalità di una politica europea fatica ad ingranare, anche se le Regioni potrebbero avere nel dialogo europeo un ruolo preminente in quanto competenti in materia di necessità territoriali. Se è vero che la Commissione Europea propone gli orientamenti strategici, è anche vero che ciascuno Stato membro concorda, di concerto con la Commissione, uno o più programmi operativi, nei quali stabilisce le sue priorità di finanziamento. Ogni Stato membro, quindi, elabora un Quadro di riferimento Strategico Nazionale (QSN), che la Commissione è chiamata a valutare. Quando il QSN viene approvato, insieme ai Programmi Operativi, è compito di Stati e Regioni attuarli.
L’Italia, pur avendo al suo attivo 594.101 progetti monitorati, ha ancora molto su cui lavorare.
Dal cartaceo di maggio 2020