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Il confine greco, dove l’Europa muore

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Sono trascorsi pochi giorni dal 9° anniversario di quella che viene convenzionalmente indicata come la data d’inizio della crisi siriana. Il 15 marzo 2011, nell’ambito delle “primavere arabe”, il popolo si ribella al regime di Bashar al-Assad con l’intento di spingerlo alle dimissioni. La protesta iniziale si trasforma in uno spaventoso conflitto che vede sullo scacchiere militare potenze che poco hanno a che fare con le motivazioni che hanno condotto i siriani alla ribellione e molto con interessi politici ed economici. Stati Uniti, Russia, Turchia, Iran e il sedicente stato islamico irrompono prepotentemente sulla scena, in un’escalation di tensioni e violenze.
Il conflitto, secondo l’organizzazione umanitaria “Syrian Network for Human Rights”, ha condotto finora a 226.247 morti civili. Dal marzo 2011, 11 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro case, spingendosi prevalentemente a nord, verso la Turchia.

È proprio qui che più di 3,5 milioni di siriani si sono rifugiati con l’avanzare della guerra, tanto per provare a fuggire verso l’Europa, quanto nella speranza che andasse in porto il fragile piano di Erdogan. Era, infatti, intenzione del Presidente turco creare in Siria delle zone cuscinetto stabili, nelle quali i profughi potessero fare ritorno. In quest’ottica, nel maggio del 2017 Turchia, Iran e Russia avevano firmato ad Astana (Kazakistan) un accordo che prevedeva l’istituzione di 4 zone di de-escalation. Nel proposito dei firmatari il piano avrebbe dovuto incoraggiare i rifugiati ad occupare questi territori, posta la cessazione delle ostilità da parte dei ribelli e delle forze di Assad. Il progetto, già precario alla sua nascita, subisce tra gli altri gli effetti dell’utilizzo della regione di Idlib come discarica: qui vengono relegati i contestatori del regime siriano buttati fuori dalle altre 3 aree designate dall’accordo progressivamente riconquistate dalle forze di Assad.

Al fine di proteggersi dall’instabile situazione venutasi a creare nella regione di Idlib, la Turchia ha chiesto ed ottenuto, con l’accordo di Sochi del 2018, firmato da Recep Tayyip Erdogan e da Vladimir Putin, la creazione di una zona franca lungo il suo confine meridionale. L’intesa è rimasta tale solo sulla carta poiché nelle intenzioni di Assad c’è sempre stata la riconquista del territorio, ultima roccaforte dell’opposizione armata. La provincia di Idlib, oggi in gran parte controllata dall’Hayat Tahrir al-Sham, un gruppo ribelle designato come terroristico dalle Nazioni Unite, conta 3 milioni di abitanti, in maggioranza civili, che qui si erano rifugiati.

Il milione di persone che, nel nord della regione, vive lungo il ciglio delle strade è ormai schiacciato contro il confine turco dall’imminente arrivo delle forze di Bashar al-Assad, sostenute dai russi. Il 27 febbraio, proprio ad Idlib, dove, come da accordi, erano state stanziate di presidio in 12 punti chiave le truppe turche, 30 soldati sono rimasti uccisi in uno scontro con il fronte siriano. La reazione di Erdogan per forzare il mancato sostegno di Europa e Nato è stata quella di annunciare l’apertura della frontiera verso la Grecia. L’obiettivo di Erdogan era e rimane anche quello di scongiurare una nuova crisi migratoria, tanto per mancanza di fondi, quanto per limitare ulteriori ricadute sociali all’interno del territorio turco, dato il probabile arrivo di nuovi rifugiati.

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Il Presidente turco sostiene, infatti, di aver già speso 40 miliardi di dollari per l’accoglienza dei circa 4 milioni di persone che attualmente si trovano in Turchia. Con l’accordo raggiunto a Bruxelles nel 2016 l’Europa si impegnava ad indirizzare ad Ankara aiuti economici per l’ammontare di 6 miliardi di euro. In cambio del versamento, ad Erdogan è stato assegnato il compito di trattenere profughi e migranti sul suo territorio; il Presidente turco ha lamentato il fatto che il denaro non sia stato inviato al Governo, ma a singoli progetti di accoglienza. Inoltre, il malcontento di Erdogan nei confronti dell’Europa è cresciuto nel tempo per la mancata attuazione di altri punti concordati, come la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e l’ammodernamento della barriera doganale, e per l’insufficiente attivazione dei canali umanitari. Era stato, infatti, deciso che, per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalle isole greche, a causa del respingimento delle domande d’asilo, un altro siriano sarebbe stato trasferito dalla Turchia ad uno Stato dell’Unione Europea. Il patto riguardava circa 70.000 persone: ad oggi l’Europa ne ha accolte solo 25.000, lasciando le isole in una situazione insostenibile.

L’isola di Lesbo, ormai chiusa al turismo, conta la presenza di circa 20.000 persone, là dove solo un sesto dei migranti e rifugiati potrebbe essere accolto. Valentina Furlanetto, giornalista de Il Sole 24 Ore, in un focus per ISPI sulla questione greco-turca, riporta la sua visita alle isole di circa un mese e mezzo fa: prima dell’annuncio di Erdogan, a Kios e Samos il numero degli arrivi era calato, ma sono peggiorate le condizioni generali di permanenza e di clima, così come testimonia l’incendio del centro di Moria, sull’isola di Lesbo. Il 1º marzo è stata data alle fiamme una struttura dell’UNHCR: i responsabili, ancora non identificati, sono da ricercare tra gruppi di estrema destra, contrari alla volontà del Governo greco di costruire lì un nuovo centro, posto che questa intenzione sia stata interpretata come possibile aumento del numero di migranti e rifugiati sul territorio. Poiché esercitano una forte attrattiva dovuta alla vicinanza con la terraferma turca, che permette viaggi relativamente brevi e sicuri, le isole rappresentano il punto di collasso di un sistema di accoglienza che non garantisce più condizioni di vita accettabili. Gli accampamenti spontanei sorgono con tende e pezzi di lamiera nelle vicinanze dei centri ufficiali, i quali, come già detto, a loro volta non sono in grado di sopportare numeri ben al di sopra di quelli previsti.

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Lo stesso problema, anche se in misura minore e soprattutto in seguito alle dichiarazioni di Erdogan rispetto all’apertura del confine con la Grecia, si ravvisa nei pressi della frontiera terrestre. I 212 km che separano i due Stati sono per buona parte segnati dal fiume Evros, che in più punti si presta all’attraversamento. È proprio qui, all’altezza del valico Pazarkule-Kastanies, che il Governo greco ha costruito una recinzione nel 2012. Nei giorni che hanno seguito l’annuncio del Presidente turco, i militari greci hanno sbarrato il passaggio con filo spinato, macchiandosi anche di azioni ingiustificabili, quali l’utilizzo di munizioni vere. A tal proposito, rispondendo alla domanda di una giornalista di Politico riguardo alla legalità dell’uso dei proiettili di gomma, si è espresso il portavoce della Commissione europea Eric Mamer, affermando che “dipende dalle circostanze, perché le autorità greche, nel loro compito di difendere i confini, decidono il modo migliore per farlo.”.

Certo, il Governo Mitsotakis si muove in condizioni molto differenti rispetto a quelle dell’ultima crisi migratoria del 2015: sempre per ISPI, l’avvocato Teodoro Dalavecuras spiega come quell’ondata sia stata subita in modo passivo dalla Grecia, poiché coincidente con il picco negativo del marasma economico. Ora, invece, è “forte” di due principali motivazioni. La prima: il direttore di Frontex Fabrice Leggeri ha confermato come il nuovo flusso sia composto al 70% da migranti afghani e per la restante parte da persone provenienti dal Maghreb e dal resto dell’Africa, rispetto alle quali si può operare un conveniente discrimine semantico tra migranti economici e profughi. La seconda: la Grecia ha incassato il tacito benestare dei tre Presidenti europei David Sassoli, Charles Michel e Ursula von der Leyen. Proprio quest’ultima ha dichiarato che “la Turchia non è un nemico e le persone non sono mezzi per raggiungere un obiettivo. Grazie alla Grecia per essere il nostro scudo.”. Con questa affermazione si produce un duplice effetto: avvallare la decisione greca di sospendere per un mese il diritto di presentare domanda d’asilo, giustificandone anche i metodi di respingimento impiegati, e scaricare tutte le colpe su Erdogan, accusato di utilizzare le persone come strumento di pressione politica. Posto che, in effetti, questa sia stata la strategia del Presidente turco, è chiaro come per l’Unione Europea sia arrivato il momento di trovare una soluzione alla sua politica di esternalizzazione delle frontiere che, oltre provocare una gestione inumana ed emergenziale di una situazione ormai consolidata, la pone anche in una posizione ricattabile.

L’Unione Europea ha finito per relegarsi autonomamente ai margini delle trattative internazionali, poiché non riesce ad esprimere una politica unitaria, debole della pluralità di voci ed interessi dei singoli Stati. Ciò di cui moltissimi osservatori internazionali accusano l’Europa viene perfettamente fotografato da poche parole di Francesca Mannocchi in un approfondimento sul tema per l’Espresso dell’8 marzo: si dovrebbe recuperare la capacità di “leggere gli eventi in chiave storica e non elettorale”, pena, anche, la perdita di credibilità. Difatti, il cessate il fuoco del 5 marzo scorso è stato firmato d’intesa tra Erdogan e Putin, ormai mediatore delle questioni siriane e libiche. La tregua, tuttavia, congela la situazione, ma non risolve né il conflitto né la gestione di migranti e rifugiati.
Per questa ragione, il 9 marzo Erdogan è volato a Bruxelles con l’intenzione di ridiscutere gli accordi siglati 4 anni fa. All’incontro non hanno fatto seguito sue dichiarazioni, mentre Ursula von der Leyen ha confermato che quanto deciso nel 2016 rimane valido, in un’ottica di reciproco impegno al rispetto dei patti. Lo “scudo”, quindi, resta tragicamente levato.

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Ezio Mauro, nel libro “Anime prigioniere – Cronache dal Muro di Berlino” attribuisce a John Fitzgerald Kennedy l’asserzione della più occidentale della crudeltà: “un maledetto muro non è una bella cosa, ma è sempre meglio di una maledetta guerra”.
Oggi, quasi sessant’anni dopo, lì dove ha conosciuto i suoi più vivaci tentativi e perfezionamenti, la democrazia muore soffocata da un’illusione ancora, invece, vivissima. Nelle nostre fantasie occidentali, muri meglio articolati dal punto di vista ontologico ci dovrebbero permettere di non pagare il conto dell’indifferenza rispetto alle vite che abbiamo sacrificato sull’altare dei privilegi che derivano dalla nostra libertà, senza accorgerci che quando togliamo umanità agli altri, la togliamo anche e noi stessi.

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