Il momento di svolta di una politica estera, italiana ed europea, quantomeno confusionaria nei confronti dei flussi migratori provenienti dalla Libia si verifica senza dubbio nell’estate del 2017.
La cattiva gestione di una situazione che, agli occhi di cittadini sempre più spaventati, sta per superare una sorta di soglia psicologica di non ritorno, si accompagna ad una colpevole narrazione degli eventi, tanto da parte della sinistra, in quel momento alla guida del Paese, che minimizza i sentimenti di inquietudine della popolazione, quanto da parte della destra, che sfrutta il momento per alimentare focolai di malcontento e paure. Il governo Gentiloni e, prima di esso, il governo Renzi dimenticano, ignorano o sottovalutano l’importanza strategica di uno storytelling appropriato, che si basi su fatti reali, ma colpisca le emozioni. Inoltre, permane una certa insistenza nel considerare flussi che si sono ormai stabilizzati e, anzi, sono in aumento, come un’emergenza che prima o poi troverà la sua fine, per la quale si imposta una linea d’azione di lungo termine precaria, tanto nel salvataggio, quanto nella gestione dei migranti.
Secondo i dati del Viminale, infatti, gli sbarchi sono stati 170.100 nel 2014, in seguito allo scoppio della seconda guerra civile in Libia, 153.842 nel 2015, 181.436 nel 2016 e 100.000 solo nei primi sei mesi del 2017 (fonte: Ministero dell’Interno e Ismu).
Arriva, infatti, nel giugno del 2017 il significativo cambio di direzione del Ministro dell’Interno Marco Minniti a quella che l’opinione pubblica ha iniziato a definire come “lotta all’immigrazione clandestina”.
La caotica situazione libica, mai del tutto definita dal precario accordo di Skhirat del 17 dicembre 2015, è, anzi, aggravata dall’avviarsi a scadenza dell’accordo stesso. Due anni dopo essere stato siglato e senza mai essere né accolto né approvato da tutte le parti in causa, il progetto di mediazione dell’ONU tra i due Parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk è destinato a volgere alla sua naturale estinzione il 17 dicembre 2017. Fayez al-Serraj, alla guida del Consiglio di Presidenza libico, viene riconosciuto come interlocutore dalla larga maggioranza della comunità internazionale, ma non decide le sorti del Paese, schiacciato dall’influente figura del generale Haftar e dalla presenza incontrollata di milizie armate su tutto il territorio.
In questo contesto d’incertezza si fortificano gli ampi margini d’azione che i trafficanti di esseri umani si sono ricavati nel tempo: dal 2014 in poi, le partenze verso le coste dell’Italia hanno sviluppato il loro potenziale numerico, con una capacità di 1.000 persone per barcone e un notevole abbattimento dei costi; nel 2017 la cifra media per una traversata è di 100 dollari, contro i circa 1.000 del 2013.
I primi tentativi per arginare il fenomeno migratorio si consumano nel segno della diplomazia, attraverso una serie di accordi che Tripoli, Roma e Bruxelles discutono in un’ottica di rafforzamento dei confini libici e di potenziamento della Guardia costiera libica, senza che risulti chiaro con chi o cosa venga identificato il corpo militare. Tanto i rapporti ONU, quanto i pareri degli osservatori politici indipendenti insistono sul punto che la Guardia costiera libica sia esplosa in una frammentazione di micro-organizzazioni di stampo criminale, dedite alla gestione del traffico di esseri umani e al controllo brutale dei centri di detenzione.
Gli analisti, tuttavia, concordano che esista un corpo centrale, apparentemente controllato da al-Serraj, intorno al quale gravita una serie di milizie alleate che gestiscono i porti dai quali partono più frequentemente i barconi. I territori sono identificati da Stefano Screpanti, generale della Guardia di Finanza, durante un’audizione alla Camera del luglio 2017, in Zuwara, Sabratha e Zawiyah; tutti questi territori si trovano, infatti, nelle vicinanze di Tripoli. Per questa ragione, il governo italiano decide di accordarsi con la realtà più istituzionale tra quelle rintracciabili sul territorio e si impegna, unitamente all’Unione Europea, ad addestrare la Guardia costiera libica in attività previste dall’operazione Sophia. La missione, approvata dagli Stati membri nell’aprile 2015, sarà da considerarsi conclusa a marzo di quest’anno, con decisione del 17 febbraio 2020. Sophia aveva come obiettivo principale lo smantellamento delle reti dei trafficanti di esseri umani, al quale si accodavano le azioni di soccorso. Anche su questo punto i report degli ispettori ONU sono chiari: l’offerta di strumentazioni avanzate e i corsi forniti al composito corpo di polizia hanno portato a risultati esigui, posta anche la sovrapposizione tra Guardia costiera e trafficanti stessi.
Nella stessa direzione opera anche il “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana”, firmato il 2 febbraio 2017. La durata prevista è 3 anni, con rinnovo tacito alla scadenza. Il Memorandum, rinnovato pochi giorni fa, ma modificato, come mostra la puntuale analisi del giornalista Nello Scavo di Avvenire, risulta, ieri come oggi, insufficiente.
Anche rispetto a questa iniziativa, infatti, i risultati sono scarni.
Diventa a questo punto evidente agli occhi di chi governa che le azioni di contenimento dei flussi migratori debbano essere esercitate direttamente sul territorio libico, con un intento di esternalizzazione delle frontiere. È questo il primo vero momento di svolta nella narrazione delle migrazioni: a luglio 2017 gli sbarchi sulle coste italiane subiscono una brusca frenata, sostanzialmente dimezzandosi rispetto al mese precedente. In giugno, infatti, secondo i dati UNHCR, si sono potuti contare circa 25.000 arrivi dalla Libia; un mese dopo le persone sbarcate si sarebbero ridotte a 11.000 e il trend si sarebbe mantenuto se non decrescente, quantomeno esiguo, fino alle fine dell’anno. Lo stesso si può dire dei 3 anni successivi: i numeri, forniti dal Viminale, parlano di 23.370 arrivi nel 2018, 11.471 nel 2019 e 2.065 (dati rilevati al 18 febbraio) nel 2020.
Le supposizioni e le accuse su quanto accaduto nell’estate del 2017 insistono su due punti principali: le insinuazioni intorno ad accordi poco chiari stretti dall’Italia in Libia e il caos dovuto all’imminente scadenza dell’accordo di Skhirat.
Quella che Marco Minniti definisce, nell’agosto del 2017, una “visione”, che prevede il potenziamento della Guardia Costiera libica e la definizione di regole più chiare con i sindaci della città interessate dal traffico di migranti, viene vista dai suoi critici come una pioggia di soldi caduta sulla Libia con il preciso intento di fermare le partenze. In questa versione dei fatti, sostenuta a gran voce da alcune delle più accreditate testate americane, quali il New York Times e il Washington Post, si accusa il Governo italiano di collusione con i trafficanti libici. In un’inchiesta pubblicata da Associated Press nell’agosto 2017 si ipotizza, appunto, che sia stato stretto un accordo tra milizie libiche coinvolte nel traffico di esseri umani e l’Italia, al fine di porre un freno al flusso di migranti. Quanto sostenuto nell’inchiesta, suffragato dalla testimonianza di alcuni tra gli attori libici coinvolti, viene seccamente smentito dal Governo italiano, che dichiara di non negoziare con i trafficanti.
Il destino indefinito post Skhirat apre, però, nuovi scenari: come sottolineato da Luca Ranieri in un articolo per Limes del giugno 2019, “per le fazioni libiche assicurarsi un posto al sole nell’assetto politico della Libia post-2017 significava soprattutto poter estendere il proprio racket a settori lucrativi, quali banche, petrolio e istituzioni finanziarie”. Sembra, quindi, plausibile, che in molti abbiano adoperato un riposizionamento delle loro attività, convertendosi alla lotta al traffico di migranti e abbandonando il traffico stesso, al fine di inserirsi come protagonisti in una nuova fase politica ed economica.
Dal cartaceo di marzo 2020