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Per vivere bisogna morire. Oriana Fallaci e la sua lotta

Oriana Fallaci
Reading time: 3 minutes

La morte è da sempre uno dei grandi interrogativi dell’umanità e ha ispirato artisti e scrittori. Tra loro, Oriana Fallaci, che volle continuare a scrivere nonostante il cancro.

Un contributo di Letizia Festa e Federica Rocchi

La morte è da sempre uno dei grandi interrogativi dell’umanità e, in quanto tale, ha dato materiale sconfinato a generazioni di artisti e scrittori, che del mistero della vita da sempre fanno la loro principale fonte di ispirazione. Petrarca la definiva non duol, ma refugio, mentre Foscolo e i romantici la invocavano come il momento in cui l’uomo si misura con se stesso. Ognuno di noi, prima o dopo, è destinato a confrontarsi con questo mistero irrisolto, ma esistono grandi scrittori che hanno votato se stessi all’arte in maniera così completa da sconfiggerla in qualche modo, lasciandoci un’eredità di inestimabile valore. È senza dubbio tra questi il caso di Oriana Fallaci (1929-2006), che ha reso la sua vita e la sua morte una testimonianza della sua arte e del suo acume, grazie ai quali è riuscita con l’ironia distintiva delle sue opere a scrivere di argomenti molto complessi, come la natura umana e i conflitti più importanti dell’ultimo secolo. 

La Fallaci non definiva se stessa con parole che fossero differenti da scrittore, come recita anche l’epitaffio della sua lapide al Cimitero degli Allori di Firenze. Fu, però, molto più di uno scrittore: rivoluzionando la concezione classica di giornalismo, ha intervistato i grandi della Terra – da Kissinger a Khomeini – e come corrispondente di guerra ha seguito i conflitti più importanti del nostro tempo – dal Vietnam al Medio Oriente. Una vita, la sua, sempre in prima linea per raccontare con piglio arguto da buona fiorentina la realtà per come appariva ai suoi occhi, violando la sacra regola dell’obiettività come vincolo giornalistico. 

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Dopo la scoperta del cancro, la sua decisione di non continuare le cure per dedicarsi alla scrittura del suo ultimo libro fece molto scalpore in Italia, sebbene non ci si potesse aspettare una scelta diversa da una donna che per tutta la vita aveva predicato l’importanza di sacrificarsi in nome di un qualcosa di più ampio di noi stessi, che potesse giustificare il nostro passaggio su questa terra. Il suo rapporto con l’Alieno – così chiamava il suo cancro – fu una battaglia senza riserve, combattuta fino all’ultimo giorno a colpi di dita sulla macchina da scrivere, unica fedele compagna della sua esistenza, che l’aiutò ad esorcizzare i momenti più terribili, uno su tutti l’uccisione del suo grande amore Alekos Panagulis. La stessa brillante razionalità che contraddistingue i suoi articoli, reportage e libri si può ritrovare in una dimensione più intima, come quella delle lettere rivolte ad amici e parenti, dalla quale emerge chiaramente il suo coraggioso approccio alla vita durante il periodo della malattia.  

Al nipote Edoardo, che le chiede come procede il suo periodo di clausura per completare il suo romanzo, scrive Un fatto è certo: se morissi il giorno dopo essere arrivata al punto cui dovrei arrivare, morirei felice. Una scelta dettata dalla sua vocazione di scrittore, che considera i propri libri dei veri figli, fatti di carta anziché di carne, e ai quali dedicarsi completamente. Il suo ultimo figlio, “Un cappello pieno di ciliegie”, è una straordinaria epopea della sua famiglia, una saga che copre gli anni dal 1773 al 1889, con incursioni nel passato e in un futuro che precipita verso il bombardamento di Firenze del 1944.  

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A conclusione di questo piccolo omaggio ad Oriana, riportiamo uno stralcio pregno di significato tratto proprio dal suo ultimo romanzo, in cui lei stessa narra – senza filtri, come in ogni suo scritto – il suo rapporto con l’Alieno e ciò che esso rappresenta: Io odio la Morte. L’aborro più della sofferenza, più della perfidia, della cretineria, di tutto ciò che rovina il miracolo e la gioia d’essere nati. Mi ripugna guardarla, toccarla, annusarla, e non la capisco. Voglio dire: non so rassegnarmi alla sua inevitabilità, la sua legittimità, la sua logica. Non so arrendermi al fatto che per vivere si debba morire, che vivere e morire siano due aspetti della medesima realtà, l’uno necessario all’altro, l’uno conseguenza dell’altro. Non so piegarmi all’idea che la Vita sia un viaggio verso la Morte e nascere una condanna a morte. Eppure l’accetto. Mi inchino al suo potere illimitato e accesa da un cupo interesse la studio, la analizzo, la stuzzico. Spinta da un tetro rispetto la corteggio, la sfido, la canto, e nei momenti di troppo dolore la invoco. Le chiedo di liberarmi dalla fatica d’esistere, la chiamo il regalo dei regali, il farmaco che cura ogni male. Tra me e lei c’è un legame fosco e ambiguo, insomma. Un’intesa equivoca e buia.[1]


[1] Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliege, Rizzoli, Milano, 2008. Pg. 358-359.  ISBN 978-88-17-02781-6


Tratto dal 92° numero di Tra i Leoni, ottobre 2020. Potete trovare l’intera edizione qui.

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