La pandemia da Covid-19 ha impresso un’enorme accelerazione al processo di automazione delle attività produttive. Si tratta di un percorso di graduale evoluzione verso un modello di “smart factory” fondato su un’organizzazione industriale digitalizzata e interconnessa. Se, però, da un lato, l’innovazione tecnologica ha consentito a molte aziende di aumentare notevolmente la propria produttività, dall’altro gli effetti di tale fenomeno sul mercato del lavoro non sono trascurabili.
Stando a una nuova indagine dell’IFR (International Federation of Robotics), ammonta a 2,4 milioni il numero di unità di robot industriali attualmente attivi, registrando un incremento del 65% rispetto al periodo 2013-2018. È una cifra allarmante, soprattutto se si considera che entro il 2022 le installazioni aumenteranno di ulteriori 2 milioni di unità.
La pandemia da Covid-19 ha infatti impresso un’enorme accelerazione al processo di automazione delle attività produttive. Si tratta di un percorso di graduale evoluzione, sostenutoanche dal Piano Industria 4.0, verso un modello di “smart factory” fondato su un’organizzazione industriale digitalizzata e interconnessa.
Le motivazioni alla base del trend
Una delle ragioni più evidenti alla base del fenomeno, soprattutto negli ultimi mesi, è strettamente connessa alla diffusione del Covid-19. Si tratta della possibilità, concessa dall’utilizzo di tali tecnologie, di garantire il distanziamento fisico nelle linee produttive: software, computer e macchine hanno permesso a molti di svolgere le proprie mansioni anche nel pieno della pandemia.
Inoltre, l’impiego di robot offre un notevole vantaggio in termini di produttività: mentre la forza lavoro umana è esposta al naturale affaticamento e, soprattutto nell’attuale contesto, al rischio di malattie e contagio, essi ne sono immuni.
Da non sottovalutare è anche il beneficio connesso all’estrema versatilità delle macchine, che consente all’imprenditore di sfruttarle differentemente a seconda delle esigenze produttive. A tal proposito risulta degno di nota il concetto di “riapprezzaggio veloce”, secondo cui il robot può avere molteplici applicazioni nel corso del suo ciclo di vita.
A ciò si aggiunga che l’automazione potrebbe essere cruciale per il recupero dell’autonomia nella gestione delle catene di fornitura, in quanto consentirebbe lo sviluppo di gran parte dei processi produttivi necessari in Italia, senza dover ricorrere ai mercati esteri.
Infine, l’adozione di tali tecnologie potrebbe essere un valido alleato sul piano della riduzione dei costi assicurativo-previdenziali. Sostituire (anche solo parzialmente) la manodopera fisica con le macchine, infatti, ha come immediato effetto il mancato versamento dei contributi da parte delle imprese che si servono di tali tecniche innovative. Ciò potrebbe, tuttavia, avere conseguenze disastrose sulle casse dello stato. Da qui la celebre frase di Bill Gates: “se un lavoratore umano guadagna 50mila dollari lavorando in una fabbrica, il suo reddito è tassato. Se un robot svolgesse lo stesso lavoro, dovrebbe essere tassato allo stesso livello”. Allo stesso tempo, però, un approccio di questo tipo potrebbe risultare nell’inibizione del processo di trasformazione del lavoro. Il dibattito sul tema resta dunque aperto.
Gli effetti sulla disoccupazione
Il più grave rischio derivante dal processo di transizione tecnologica è connesso alle ripercussioni di tale dinamica sul mercato del lavoro. È quello che l’economista di Princeton Markus Brunnermeier chiama “effetto Roomba”: per timore del contagio, le famiglie tendono a licenziare le persone addette alla pulizia domestica e le sostituiscono con un robot Roomba. Si tratta di un esempio banale che, però, rende chiaramente l’idea del possibile scenario che si potrebbe delineare nell’imminente futuro.
Ma quanti posti di lavoro ogni robot è in grado di sostituire? Per rispondere a questa domanda faccio riferimento a uno studio del MIT condotto dall’economista Daron Acemoglu. L’autore dimostra che l’introduzione di un robot consente di rimpiazzare in media 6,6 posti di lavoro. Tuttavia, considerati gli effetti positivi generati dal loro utilizzo, soprattutto in termini di più basso costo dei beni, si è stimato tale tasso pari a 3,3.
Dunque, la preoccupazione maggiore riguarda l’eventualità che il processo di innovazione possa condurre a quella che già negli anni Trenta l’economista John Maynard Keynes definiva “disoccupazione tecnologica”, ossia la perdita del lavoro come estrema conseguenza della diffusione dell’impiego di processi automatizzati da parte delle aziende.
Secondo Brookings, i settori che con maggiori probabilità potranno essere vittime di questo fenomeno sono quelli dei trasporti, degli uffici amministrativi e della preparazione del cibo.
Le conseguenze sui salari
Diversi studi sostengono che l’incremento nell’utilizzo dei robot abbia accresciuto la competizione sul mercato del lavoro, determinando un calo dei salari di circa lo 0,4%. Tuttavia, ciò che più colpisce è notare che tali effetti non sono distribuiti uniformemente all’interno del tessuto sociale, ma affliggono in maniera più incisiva i lavoratori a basso reddito, generando un problema di iniquità salariale. Difatti, i lavoratori che più facilmente possono essere sostituiti dai robot (e quindi competere con loro) sono quelli che svolgono mansioni per le quali non si rendono necessarie competenze specifiche: i cosiddetti “low-skill” e “middle-skill” workers.
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La formazione di nuove figure professionali
Se l’impiego dei robot conosce ampia diffusione proprio durante i periodi di crisi (come quello attuale), sorge una contraddizione: se in queste circostanze la disoccupazione tende ad aumentare, allora il lavoro umano dovrebbe diventare più economico riducendo gli incentivi all’adozione di automi.
La spiegazione a tale incongruenza viene fornita da Brookings e consiste nell’idea che l’infiltrazione dei robot si concentri proprio durante le recessioni economiche quando il costo della forza lavoro umana aumenta in rapporto ai ricavi delle aziende che seguono un andamento opposto. È in tale situazione che il numero dei licenziamenti aumenta. Tuttavia, non tutto il personale può essere licenziato, così il datore si limita a sostituire con le macchine quello meno qualificato e produttivo. L’automazione comporta, dunque, un effetto di “dislocamento”, cioè soppianta la manodopera meno abile con una più capace e competente. Ciò che suscita interesse è notare che le figure professionali attualmente esistenti non sempre hanno padronanza delle nuove skill domandate in un mercato del lavoro dominato dalla tecnologia. Si rende, dunque, necessaria la creazione di profili totalmente nuovi che potrebbero, come sottolinea anche uno studio del McKinsey Global Institute, compensare la consistente perdita di posti di lavoro dovuta all’introduzione delle macchine.
Previsioni per il futuro
Per le aziende che hanno deciso di apportare tali innovazioni di carattere tecnologico nella propria rete organizzativa è stato misurato un aumento della produttività anche dieci volte maggiore rispetto alle altre. Che sul lungo periodo gli effetti dell’automazione saranno positivi è quindi fuori di dubbio. Ciò che invece preoccupa è cercare di comprendere quanto lungo sarà effettivamente tale periodo.
La diffusione delle nuove tecnologie non deve essere percepita come un elemento di pericolo per il lavoro umano, ma come un mezzo alternativo per affiancarlo. Infatti, è opinione diffusa che i robot non riuscirebbero mai a sostituirsi completamente all’uomo, e una conferma di ciò si è avuta proprio durante l’emergenza Covid-19. Gli automi industriali necessitano di lavorare in un ambiente appositamente “ingegnerizzato”, e che la sequenza di azioni da eseguire sia preventivamente definita e programmata. Una piccola modifica in questo assetto comporta la necessità di impostare nuovamente le macchine. Questo è il motivo per cui durante il lockdown i robot hanno riscontrato difficoltà notevoli nel sostituire l’uomo.
D’altronde, vi saranno sempre delle mansioni il cui svolgimento resterà del tutto incompatibile con i meccanismi automatizzati. Si pensi alle fasi di controllo qualità che sono ancora in gran parte svolte dall’uomo. A ciò si aggiunga che la flessibilità e la creatività umana saranno sempre delle caratteristiche fondamentali all’interno del processo di produzione aziendale, la cui richiesta di adattabilità e riconfigurabilità le rende imprescindibili.
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