Con “Cristi e Diavoli,” la Lovegang ci ricorda che nonostante il processo di individualizzazione che l’hip hop ha subito nel corso degli ultimi quindici anni, lo spirito fondante del movimento è e sarà sempre uno spirito di collettività. È un disco che va completamente oltre le logiche di mercato e sembra, piuttosto, il disco di un gruppo di amici a cui è venuta voglia di fare musica insieme, di raccontare le proprie esperienze all’interno di un quartiere e di una città che nessuno di loro ha lasciato, di divertirsi. Un approccio che trent’anni fa sarebbe stato l’unico possibile, ma che oggi risulta inevitabilmente nuovo e proprio per questo affascinante e che ci ricorda che l’hip hop non morirà mai.
“L’hip hop è una responsabilità condivisa,” sono le parole con cui il rapper calabrese Kenzie chiude Odia gli indifferenti, uno dei più noti e apprezzati estratti del disco del produttore romano Dj Fastcut “Dead Poets,” uscito nel 2016. Queste parole, che vanno tra l’altro a chiudere un pezzo per struttura e contenuti particolarmente denso, vengono pronunciate da Kenzo quando l’incalzante strumentale di Dj Fastcut è ormai terminata, andando quindi a riempire quei pochi secondi di silenzio che vanno a separare il termine della traccia dall’inizio di quella successiva, La morte dei poeti.
Si tratta di una frase in apparenza di poco conto, che a un ascoltatore meno attento può giustamente passare inosservata, anche perché non è propriamente di questo che parla la canzone. A un orecchio più abituato, però, più conscio dei principi su cui si fonda quello che è ormai uno dei movimenti culturali più influenti al mondo, una frase del genere non può passare inosservata, perché incarna con grandissima efficacia parte dello spirito dell’hip hop.
Al di là del riferimento alla “responsabilità” – indubbiamente pertinente per chi ha un’accezione più tradizionale della cultura hip hop ma che con l’avvento della sua estetica in ogni strato della società si è inevitabilmente perso – è il concetto di condivisione a essere particolarmente rilevante: fin da quando è nato, nel Bronx degli anni ’70, l’hip hop ha trovato nella condivisione la sua massima forma di espressione, la condivisione del disagio, delle difficoltà, dell’energia, della voglia di riscatto e della voglia di divertimento, dell’arte. D’altronde, le cinque discipline dell’hip hop (il rap, il writing, il beatboxing, la break dance, e il DJing) hanno senso di esistere solamente nel momento in cui vengono condivise da un gruppo per un gruppo, qualsiasi sia poi il contesto, se la strada o un centro sociale, se un muretto o una discoteca.
Non è un caso quindi che la storia dell’hip hop, specialmente in Italia, sia una storia di collettivi, di gruppi di ragazzi spesso provenienti da contesti di medio-bassa agiatezza economica che l’uno nell’altro riconoscevano lo stesso spirito e la stessa voglia di utilizzare l’hip hop per esprimersi che ritrovavano dentro di sé. La storia dell’hip hop in Italia degli anni ’90 è una storia di “posse,” ovvero di gruppi. Dai Cor Veleno ai Sangue Misto, passando per i 99 Posse e gli Almamegretta, ognuno con la propria storia, la propria estetica, le proprie caratteristiche, ma tutti accomunati da quest’accezione di collettività e condivisione come elemento fondante dell’arte. Certo, l’hip hop era ancora un movimento marginale all’interno della società e il rap era un genere sconosciuto o comunque ignorato sia dal pubblico che dagli addetti ai lavori, per cui era impossibile farne un lavoro: di conseguenza, non c’erano logiche di mercato a direzionare le scelte degli artisti, ma solo la loro sensibilità individuale.
Se quest’ultima cosa inizia a cambiare tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, quando prima gli Articolo 31 e poi soprattutto la Dogo Gang iniziano a essere noti anche a un pubblico più ampio, questo aspetto della collettività rimane intatto, con i Sottotono, il Truceklan, i Co’Sang. Poi, all’improvviso, qualcosa cambia: le etichette discografiche si iniziano ad accorgere dell’esistenza del rap. Mondo Marcio firma per la EMI, Inoki con la Warner, Fabri Fibra e i Club Dogo per la Universal, i Cor Veleno per la H20 Music. Da lì, inizia un processo di individualizzazione dell’hip hop: quella che prima era un’esperienza collettiva inizia a diventare un’esperienza individuale. Dalla Dogo Gang di Milano emergono Jake La Furia, Gué Pequeno e Marracash. Dai Co’Sang di Napoli emerge Luché. Dal Truceklan di Roma emerge Noyz Narcos. E in tutto ciò, si iniziano a fare strada nel mercato musicale anche artisti che non hanno un passato così definito all’interno di un collettivo: Fabri Fibra, Mondo Marcio e più tardi Emis Killa, Salmo, MadMan, Gemitaiz, Lazza.
Si tratta di artisti che, ognuno a modo suo, hanno contribuito a diffondere e reinventare un genere che è sempre stato e sarà sempre dinamico, soggetto alle peculiarità del contesto in cui viene praticato e alle sensibilità di chi lo pratica e chi lo ascolta. Ma sono artisti accomunati dal fatto che ognuno segue il proprio percorso individualmente: le collaborazioni, per fortuna, non mancano, e l’amicizia tra di loro è spesso consolidata e esplicita (basti pensare a MadMan e Gemitaiz, o a Marracash e Gué Pequeno), ma il concetto di collettivo ha cessato di avere la rilevanza che aveva prima.
Ecco perché, quando lo scorso 21 aprile, il collettivo romano Lovegang ha pubblicato il proprio primo disco tutti insieme Cristi e Diavoli, il commento della maggior parte degli addetti ai lavori è stato: “è tornato l’hip hop in Italia.” La Lovegang si è formata nel cuore di Trastevere, ai piedi dei 126 gradini che compongono la scalinata di Via Dandolo, oltre dieci anni fa e ad oggi sono diversi gli artisti che ne fanno parte. A livello musicale, ognuno di loro segue un proprio percorso individuale, chi con più chi con meno notorietà a livello nazionale. I più conosciuti sono sicuramente Franco126 e Ketama126, ma a Trastevere figure come Ugo Borghetti, Pretty Solero e Asp126 sono autentiche leggende di quartiere.
Cristi e Diavoli è un disco che va completamente oltre le logiche di mercato che spesso vanno inevitabilmente a influenzare le scelte che gli artisti compiono all’interno dei propri lavori; sembra, piuttosto, il disco di un gruppo di amici a cui è venuta voglia di fare musica insieme, di raccontare le proprie esperienze all’interno di un quartiere e di una città che nessuno di loro ha lasciato, di divertirsi. Un approccio che trent’anni fa sarebbe stato l’unico possibile, ma che oggi risulta inevitabilmente nuovo e proprio per questo affascinante.
Non è l’unico esempio: lo scorso anno, a Napoli, era stato il collettivo SLF a pubblicare il progetto comune We The Squad. Anche in questo caso, stessa logica: ognuno dei membri del collettivo (Lele Blade, Yung Snapp, MV Killa, tra gli altri) ha una propria carriera solista, ma ha trovato il tempo, lo spazio e la voglia di partecipare a un progetto comune.
In tutta Italia, quest’accezione dei collettivi sta tornando, da Milano a Palermo, da Napoli a Genova. Al di là delle preferenze specifiche di ognuno, si tratta di una tendenza affascinante, che ci mostra come l’hip hop, anche quando cambia, scaturisce da una voglia di condivisione giovanile che non potrà mai essere completamente razionalizzata dalle logiche di mercato. Pertanto, al di là di come la musica si evolverà in futuro e di come l’hip hop continuerà a cambiare, lo spirito su cui si fonda il movimento sarà sempre lì. L’hip hop non è tornato: semplicemente, l’hip hop non se ne andrà mai.
Raised in Rome by Bosnian parents, I try to use writing as a tool to decipher the world around me and all its complexities by taking different perspectives into consideration. In Bocconi, I am studying International Politics and Government.