Immagino che molti, come me, si sono imbattuti più volte nella fatidica domanda “Perché hai scelto questa facoltà?”. Le risposte che vanno per la maggiore, soprattutto nella nostra università, sono del tipo “studio legge perché offre tanti sbocchi professionali, in settori anche molto diversi” oppure “studio economia perché mi piace il mondo degli affari, se uno è bravo riesce a guadagnare molto”.
Non so cosa ne pensino i lettori, ma queste motivazioni mi hanno sempre lasciato insoddisfatto. In effetti, sono quelle che Immanuel Kant definirebbe “determinazioni eteronome”. Ciò significa compiere azioni per amore di qualcos’altro, inseguire obiettivi esterni; in questo modo diventiamo strumenti più che autori degli obbiettivi che ci prefiggiamo. Secondo Kant agire in questo modo significa non essere liberi, perché la mia volontà viene determinata al di fuori di me. Sono veramente libero solamente quando la mia volontà si determina in modo autonomo, in base ad una norma (imperativo) che sono io stesso ad impormi. “Studio perché è mio dovere farlo” e chi lo dice questo? “sono io stesso a dirlo”. Quando noi agiamo in modo autonomo, seguendo un imperativo che noi stessi ci siamo imposti, non siamo più strumenti di obiettivi esterni, ma facciamo qualcosa che trova la sua ragion d’essere in noi stessi. La nostra capacità di libertà è ciò che ci distingue dalle cose (soggette solo alle leggi naturali) e Kant non ha dubbi in merito all’origine di tutto questo: la Ragione. Potrebbe sembrare questa una posizione troppo utopistica, distaccata dalla vita concreta; in fondo, si studia per ottenere un posto di lavoro, e si vuole un posto di lavoro per poter mangiare. Questa è una visione della razionalità in senso strumentale: secondo gli utilitaristi non è compito della ragione scegliere quali obiettivi valga la pena perseguire, ma solamente calcolare il modo più efficiente per soddisfare i desideri che ci capita di avere. Kant non accetta questo ruolo subordinato della ragione, non volendola sottomettere alle passioni. Inoltre, il valore di un’azione non è dato dagli effetti che produce, ma dall’intenzione con il quale viene compiuta la stessa azione. Si potrebbe dire che è il movente che da valore morale all’azione. “la buona volontà è buona non per quel che produce o realizza – scrive Kant – ma è buona in sé, che riesca o no a prevalere. Anche se questa volontà fosse del tutto priva del potere di realizzare i suoi intendimenti; se nonostante il massimo sforzo non riuscisse tuttavia a realizzare nulla, anche in quel caso risplenderebbe come una gemma per virtù propria, come una cosa che ha pieno valore in se stessa”. Quando il movente delle nostre azioni sono interessi personali, bisogni o appetiti (moventi di inclinazione) queste non hanno alcun valore etico. Nella pratica molto spesso il dovere coesiste con l’inclinazione. Si può studiare per imperativo categorico ed allo stesso tempo amare ciò che si studia o la professione a cui si tende. Kant non nega tutto questo, ma precisa che è importante tenere ben distinto ciò che è principio da ciò che ne è effetto.
Gianluca Federico
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