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IL REFERENDUM SULLE “TRIVELLE”

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noti3654Di Lorenzo Sala.

PER CHE COSA SI VOTA?

Per uno solo dei sei quesiti originari. Gli altri, come quello contro le nuove trivellazioni, sono decaduti perché la Corte Costituzionale ha ritenuto che il Governo abbia già modificato la Legge di Stabilità in maniera tale da renderli di fatto inutili. Il voto riguarda l’abrogazione della parte dell’articolo 6 della legge 117 del codice dell’ambiente che prevede che le estrazioni continuino fino a che il giacimento lo consente. Nella Legge di Stabilità 2016 è infatti stata inserita una proroga alle concessioni di estrazione trentennali, fino ad esaurimento dei giacimenti. Le piattaforme di gas e petrolio interessate dal referendum sono le 21 all’interno delle 12 miglia marine. Sono escluse quelle sulla terraferma e quelle in acque internazionali. La stessa Legge di Stabilità ha vietato nuove concessioni di estrazione all’interno delle 12 miglia. Per la prima volta un referendum è indetto su richiesta dei Consigli Regionali. Tra questi vi sono la Sicilia e la Basilicata che sono le due regioni maggiormente interessate dall’estrazione di idrocarburi in acque territoriali.

LE RAGIONI DEL SÍ

Se vincesse il sì, alla scadenza le concessioni non sarebbero più rinnovate. Lo scopo, più politico che pratico, sarebbe dare un segnale di convergenza della politica energetica verso le rinnovabili, attualmente al 40% della fornitura di energia elettrica. Secondo le analisi dell’ISPRA, l’acqua nei pressi delle piattaforme sarebbe contaminata da metalli pesanti e ciò danneggerebbe l’attività ittica e turistica. Turismo che viene danneggiato anche dal processo di subsidenza, causato da tali attività estrattive, che ha nel corso del tempo eroso pezzi di costa. Infine, vi è sempre il seppur remoto rischio di uno sversamento di petrolio o gas in mare, come successo nel 2010 nel Golfo del Messico. L’impatto sull’economia italiana della vittoria del sì sarebbe ambiguo: varie piattaforme estrattive appartengono a multinazionali straniere e le royalties versate (al 7%) sono tra le più basse in Europa. Le ripercussioni maggiori si avrebbero sulla disoccupazione nel breve periodo e, quindi, sulla domanda interna. Nel medio periodo, scadendo le concessioni tra dieci anni, lo sviluppo delle rinnovabili ed una maggior efficienza energetica potrebbero rendere non necessarie più cospicue importazioni dall’estero ed assorbire gli esuberi. Bisogna tener conto che tra 2008 e 2014, vuoi anche per la crisi, la domanda di gas in Italia si è ridotta del 26% per poi tornare leggermente a crescere nel 2015. Le stime per il futuro prevedono un picco intorno al 2020, molto minore comunque rispetto ai consumi pre-crisi, e poi l’inizio di una nuova decrescita.

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LE RAGIONI DEL NO

Se vincesse il no, le estrazioni continuerebbero sino a esaurimento dei giacimenti. Si manterrebbero così i posti di lavoro e meno idrocarburi dovrebbero essere importati dall’estero, evitando di aumentare il traffico di petroliere nei nostri mari. Gli impianti non resterebbero abbandonati a poche miglia dalla costa pur avendo altro petrolio da estrarre. Le concessioni sarebbero comunque vincolate al rispetto delle norme di salvaguardia ambientale vigenti nel nostro Paese. Chi supporta il no sostiene che in Italia le tecnologie di estrazione siano molto avanzate e che quindi il rischio di danno ambientale sia proporzionalmente ridotto. Inoltre, incrementare le importazioni dall’estero aumenterebbe l’esposizione alla volatilità dei prezzi decisi dagli esportatori di gas e petrolio. Non trattandosi di nuove trivellazioni, non esistono ulteriori rischi di danni ambientali. Sfruttarli fino ad esaurimento ricoprirebbe e porterebbe a profitto gli ingenti investimenti in capitale fisso che la realizzazione di tali impianti ha richiesto.

CONCLUSIONI

Le conseguenze pratiche del referendum sono ridotte. Il contributo delle piattaforme interessate dal referendum alla produzione italiana è assai contenuto, dato che la maggior parte dei giacimenti estrattivi si trova al di fuori delle 12 miglia. Inoltre, sia per quanto riguarda il gas naturale che il petrolio, la produzione domestica copre meno del 10% della domanda. Il paradosso è che, se anche vincesse il sì, le compagnie proprietarie degli impianti in questione potrebbero comunque aumentare la produzione in modo da cercare di esaurire i giacimenti entro la scadenza delle concessioni.

Insomma, il referendum ha più che altro carattere ideologico. Da un lato, bloccare le estrazioni vuol dire perdere circa 6000 posti di lavoro nell’indotto dei combustibili fossili e lasciare inutilizzate risorse il cui contributo permetterebbe di ridurre la nostra dipendenza energetica dall’estero. D’altro canto, i promotori del referendum vedrebbero una vittoria del sì come un segnale forte verso una più decisa politica verso le rinnovabili. A Parigi il governo italiano è stato tra i più attivi nel promuovere un accordo globale sul clima, ma in casa la sua politica di sviluppo energetico sembra ancora incapace di rinunciare ai vecchi idrocarburi. Quale sarà la strada giusta per l’Italia del domani? E, soprattutto, sarà quella che i votanti o i non votanti, trattandosi di referendum, sceglieranno?

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