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Arts & Culture

Raccontare Srebrenica

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“La parola bosniaca katastrofa” scrive nel suo romanzo “I miei genitori”, lo scrittore bosniaco Aleksandar Hemon “deriva chiaramente, come in molte altre lingue, dalla matrice greca. In bosniaco, però, […] katastrofa sembra avere un valore e un uso sostanzialmente diversi rispetto a quelli di catastrophe nell’inglese”. Infatti, “quello [la katastrofa] è il modo in cui [suo padre] avrebbe raccontato la storia della [sua] famiglia: le guerre, gli infortuni, le fughe, i lutti, le fatiche, i momenti di pericolo e disperazione.”

Trent’anni fa Sarajevo, una capitale europea, una città multiculturale, vivace, era sotto assedio. Poco più di trent’anni fa, il 3 ottobre 1993, il religioso e pacifista italiano Gabriele Locatelli, a Sarajevo con l’associazione pacifista “Beati i costruttori di pace”, venne ucciso sotto i colpi di un cecchino mentre simbolicamente cercava di deporre una corona di fiori su un ponte della città. Ancora, il 9 novembre segna i 30 anni dalla distruzione del ponte di Mostar, Patrimonio dell’Umanità UNESCO: simbolo di una città squarciata in due.

Una delle pagine più buie di quella guerra è stato il massacro di Srebrenica, il primo genocidio in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Sebbene Srebrenica fosse dal 1993 zona demilitarizzata sotto la tutela della missione UNPROFOR delle Nazioni Unite, l’11 luglio 1995 venne invasa dalle forze militari serbe che nei giorni successivi uccisero circa 7-8000 bosgnacchi (i bosniaci musulmani). Nonostante il 14 luglio 1995 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite abbia condannato le “uccisioni di civili inermi” come “inaccettabile procedura di pulizia etnica”, la comunità internazionale non riuscì a intervenire per fermare il genocidio. Il lettore interessato può trovare spunti di riflessione sul tema sul sito dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa.

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La domanda che qui voglio porre al lettore è: si può, e in caso come, raccontare un genocidio? Se la mente non va subito a “Se questo è un uomo” di Primo Levi, l’invito è di chiudere questo articolo e andare a leggerlo.

Senza dubbio, un elemento essenziale per raccontare un genocidio è la memoria. E l’arte, nelle sue molte forme, è veicolo di memoria ed emozioni. Qui, in particolare, vorrei raccontare alcune testimonianze sul genocidio di Srebrenica. Il Memoriale di Srebrenica, in ricordo delle vittime del massacro, ospita Gallery 11/07/95 del fotografo Tarik Samarah con fotografie di Srebrenica dopo il genocidio. Secondo il sito del fotografo, “la specificità di Gallery 17/07/95 è il fatto che non tratta la storia nella sua forma finale, ma interviene nel momento storico che non è solo un recente passato, ma appartiene anche al presente”. “Srebrenica”, si legge ancora, “è un simbolo – non solo della guerra in Bosnia ed Erzegovina, ma anche della sofferenza di perone innocenti e dell’indifferenza di altri”.

Nel 2020, venticinquesimo anniversario dal genocidio, al Memoriale di Srebrenica si è tenuta una mostra della serie Exodus del pittore Bosniaco Safet Zec. La serie, composta da dipinti di formato monumentale, è divisa in tre sezioni: Lacrime, Abbracci e Mani sul cuore. L’artista considera i suoi lavori fino agli anni Novanta appartenenti al “tempo dei sogni” e spiega che “quei sogni sono stati spazzati via con gran parte delle mie opere, distrutte anch’esse in una

guerra fratricida.” L’arte, allora, è l’unica reazione possibile. Riflette Zec in un’intervista: “Il linguaggio dell’arte ha una grande capacità: sa esprimere la tragedia e il dolore in un modo bellissimo.” Exodus è una serie attuale, non storicizzata, che racconta il dramma dei popoli costretti a fuggire: a Srebrenica era esposto anche un trittico raffigurante il corpo morto di Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni annegato mentre cercava di raggiungere l’Europa. Lo stesso bambino, la cui foto, ha spinto Oscar Camps a fondare la ONG Open Arms, storia raccontata nel film “Open Arms – La legge del mare”, a ricordare che no, forse dopo tutto l’arte non è l’unica soluzione di fronte alle tragedie, ma è accompagnata dal senso civico, dalla volontà di fare del bene, dall’umanità.

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E l’artista? Dice ancora Zec: “L’artista, così come chiunque altro, ha il dovere di non produrre stupidaggini. Al mondo servono opere pensate, utili. Che senso ha progettare un ponte che non si può attraversare? Perché scrivere un romanzo che non tocca i problemi contemporanei? Ognuno, nel proprio campo, deve lavorare alle grandi sfide dell’umanità.”

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A volte mi sorprendo a osservare il mondo come se fosse un mito, a vederlo popolato da eroi tragici (classici?) per capirlo un po’ meglio. O solo per gioco?

Currently studying Economics and Social Sciences to try to navigate complexity with some weird models.

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