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Argomentare in etica

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trolleyproblemdi Lorenzo Azzi – Con questo scritto ci si intende occupare di un ben noto dilemma di filosofia morale. Si tratta del cosiddetto trolley problem.

Prima di illustrare la questione, si chiariranno quali siano le finalità che questa riflessione non persegue. Innanzitutto, non si vuole indicare una soluzione né un’opzione preferibile. In secondo luogo, non si vuole concentrare l’attenzione sulle teorie di filosofia politica o morale che sottostanno alle due possibili scelte (purtuttavia, un accenno sarà indispensabile).

Ciò che si propone come il fine di questo breve saggio è l’analisi delle modalità tramite cui ciascuno di noi argomenta quando è chiamato a confrontarsi con temi etici. Per adempiere tale compito nella maniera più idonea possibile, si è pensato di rivolgere un sondaggio a un buon numero di persone, di varia cultura ed estrazione sociale. Resta il fatto che un sondaggio organizzato da una sola persona (per di più in breve tempo) non potrà che soffrire di tutti quei problemi che conseguono all’esiguità del campione. Si ritiene questa premessa necessaria per evitare d’esser rimbeccati da assai solerti colleghi economisti.

Bene, è ora di illustrare il dilemma.
Si immagini di essere alla guida di un tram che circola su dei binari (quindi su di un percorso segnato). Ci si accorge che i freni, non per colpa propria, non funzionano. In lontananza si scorgono cinque uomini che stanno lavorando sul binario e che saranno inevitabilmente investiti qualora il tram proseguisse la sua corsa. Non c’è modo di avvertirli. Quello che è possibile fare è deviare il tram su di un binario secondario, sul quale è al lavoro un solo uomo, che però, a sua volta, se si decidesse di deviare, perderebbe la vita.

La letteratura ci indica che circa l’80% delle persone risponde che svolterebbe. Ebbene, come già si immaginava prima di cominciare il sondaggio, tale dato si è rivelato senz’altro esagerato. Il motivo è semplice: gli studi di filosofia morale, soprattutto quelli riferiti a questo dilemma, sono prevalentemente di radice statunitense (Philippa Foot, Michael Sandel ecc.), ossia nascono e si sviluppano in un ambiente, quello anglosassone, fortemente impregnato di cultura consequenzialista, o utilitarista, che non a caso deve la sua nascita a nomi quali Jeremy Bentham e John Stuart Mill (entrambi britannici). Svoltare è, infatti, scelta conseguente all’idea che la moralità di un’azione sia da valutarsi sulla base delle conseguenze ch’essa produce. Non ci si soffermerà qui né sulla dottrina del doppio effetto né sull’equivocità della nota espressione “la maggiore felicità per il maggior numero”, per i motivi premessi.

Non svoltare è, invece, scelta conseguente ad un approccio all’etica che vede la moralità di un’azione in re ipsa, ossia che prescinde dalle conseguenze ch’essa produce (conseguenze che possono rilevare solo ad altri fini). Il riferimento principale è a Immanuel Kant e agli imperativi categorici: diritti fondamentali indisponibili alle maggioranze.

La maggioranza che emerge dal sondaggio effettuato, certo cospicua, resta alquanto inferiore rispetto a quella dell’80%: segnatamente, si è intorno al 65%.

Quello che qui più rileva, però, come detto, è l’argomentare (e, si badi, il contro-argomentare!).

Chi svolta giustifica tale scelta sostanzialmente tramite due ragioni (non necessariamente alternative):

  1. La larga maggioranza (oltre l’80%) riferisce di svoltare perché quello è l’unico modo per salvare cinque persone, pur sacrificandone una (quindi, l’unico modo per minimizzare i danni). Si tratta proprio dell’argomento utilitarista tout court e, in quanto tale, si porta dietro tutti i problemi conseguenti alla concreta applicazione del criterio “la maggiore felicità per il maggior numero”. Senza ricordare lo storico esempio dei panem et circenses, si tenga conto che un simile modo di pensare è, al di là dell’apparenza, quanto di meno democratico vi possa essere, in quanto non è in alcun modo idoneo a salvaguardare le minoranze (nel migliore dei casi, finiscono sotto un tram; nel peggiore, sbranate da leoni).
  2. Poco più del 10%, invece, pur partendo dall’argomento utilitarista, lo rafforza in senso negativo. Si rileva, cioè, che la riprovazione morale di chi omette di agire non possa essere considerata inferiore a quella di chi sceglie di agire. In questo senso, si tenta di screditare una possibile argomentazione di chi decide di non svoltare, e che analizzeremo tra poco, in tale sede.

Ora, vediamo gli argomenti di chi non svolta. Se ne sono individuati tre:

  1. Un argomento di minoranza, anche perché in un certo qual modo dottrinale e che presume una certa conoscenza dei temi in oggetto, è quello del rifiutarsi di compiere operazioni matematiche sulle vite umane. In questo senso, si disconosce la possibilità di considerare gli esseri umani (e le loro vite) come addendi o minuendi. Non si può sommare né sottrarre l’imponderabile, e tale deve essere considerato il valore di una vita umana. Questo argomento ha senz’altro il pregio di eliminare alla radice spiacevoli conseguenze (si veda il caso del difetto dei serbatoi del carburante delle Ford Pinto negli anni Settanta del Novecento e le conseguenti stime sul valore monetario di una vita umana). Il difetto dell’argomento sta forse nel suo concettualismo: di per sé potrebbe anche non fare una piega, ma regge il confronto con la realtà economico-sociale e con le scelte che ogni giorno siamo chiamati a compiere?
  2. Di minoranza è anche il secondo argomento, quello della fatalità, del destino. Argomento prettamente religioso, che però è stato sollevato anche da chi tale non si dichiara. Fiumi d’inchiostro si potrebbero versare, e senz’altro si sono versati, su libero arbitrio e futuro già scritto. Questo argomento, però, più che giustificativo di una scelta (quella di non svoltare) lo è del non decidere e, in quanto tale, non può essere di nostro interesse.
  3. L’argomento di maggioranza è quello opposto ad uno precedentemente citato. Non si svolta perché, pur riconoscendo che anche in tal modo si cagiona la morte di un uomo (anzi, cinque), la riprovazione morale di un’azione non può essere considerata pari a quella di un’omissione. A tale argomento si potrebbe prontamente replicare che anche omettere di agire è una scelta, qualcosa, cioè, di ontologicamente equivalente a un’azione.

Il dilemma morale prevede una seconda situazione immaginaria, valevole solo per chi precedentemente ha deciso di svoltare e volta a porne le argomentazioni in contraddizione.

Si immagini di non essere più alla guida del tram, ma di essere un osservatore esterno, posto sul ponte sotto di cui passa il tram. Ci si accorge che il macchinista è in difficoltà, i freni non funzionano e le cinque persone verranno senz’altro travolte se non si fa qualcosa. Non esiste un binario secondario (né la possibilità di avvertire alcuno). C’è però un signore obeso che si affaccia sul ponte. Si conosce con certezza che, qualora lo si spingesse giù, ostruirebbe il percorso del tram, causandone la fermata e, di conseguenza, salvando i cinque lavoratori.

Le percentuali di chi spinge si riducono, come presumibile, al lumicino. Poco più di uno su dieci.

Analizziamo gli argomenti.

Chi spinge ha, relativamente, vita facile, potendo richiamare uno dei due argomenti utilizzati precedentemente per giustificare la propria scelta di svoltare, mostrando inattaccabile coerenza. Di conseguenza, rimandiamo a quanto detto sopra.

Vediamo come argomenta chi, pur avendo svoltato nel primo caso, si rifiuta di spingere nel secondo:

  1. Il primo argomento, per fortuna, è minoritario, in quanto si pone in radicale contraddizione con uno dei possibili argomenti utilizzati per giustificare la decisione di svoltare. Si tratta del ritenere comunque più moralmente riprovevole cagionare attivamente un danno (nel nostro caso, l’evento letale) a un terzo piuttosto che farlo in via omissiva. Ma è proprio sulla base del fatto che la riprovazione tra azione e omissione fosse pari che si era in precedenza deciso di svoltare! Eppure, circa il 20% cade in questa fatale contraddizione.
  2. Assai interessante è l’argomento che si potrebbe definire dell’estraneità. Chi argomenta in tal senso sostiene che l’obeso, a differenza del lavoratore sul binario secondario del primo caso, non è coinvolto nella situazione, ma è piuttosto un soggetto esterno, un osservatore. Di conseguenza, non sarebbe giustificata la sua morte, nemmeno per salvare cinque vite umane, mentre lo era quella del lavoratore, in quanto soggetto che si era consapevolmente assunto dei rischi, nel momento in cui aveva stipulato un contratto di lavoro con la società ferroviaria. L’argomento è intrigante. Questa lodevole caratteristica, però, non lo pone al riparo da critiche. Sembra, infatti, un modo di ragionare troppo formalistico per attagliarsi a una valutazione morale. Voglio dire: dal punto di vista giuridico, oserei sostenere che non fa una piega. I riferimenti ai reati omissivi impropri ex art. 40 cpv. c.p. e alla presunta posizione di garanzia del macchinista sono chiari (anche se, magari, ignorato da chi solleva tale ragionamento). Ma davvero, astraendo dal mondo giuridico, possiamo ritenerci soddisfatti da un modo di pensare di tal fatta? O forse che, dal punto di vista etico, il dovere di salvare una vita umana (a maggior ragione, più) o lo si ha sempre o non lo si ha mai?
  3. L’ultimo argomento, per nulla infrequente, se dogmaticamente può apparire di scarso interesse, va sempre tenuto ben da conto. Non a caso lo si è tenuto da ultimo, a mo’ di ammonimento. Si tratta di un argomento emotivo, solo in parte riconducibile alla differenza morale tra azione e omissione. Pur ritenendo parimenti riprovevoli le due modalità, infatti, si potrebbe senz’altro, nel caso concreto, avere più di una remora a spingere un uomo da un ponte, causandone la morte certa. Evidentemente, tale argomento è anche frutto dell’ideazione di questo secondo caso. Poniamo che, anziché spingere, fosse necessario premere un pulsante in grado di rimuovere la botola (rimembranze disneyane) sulla quale si trova l’obeso: varrebbe ancora l’argomento emotivo (che, si badi, quando si trattava di muovere una leva, non è valso!)?
    A ogni buon conto, si tenga sempre a mente il monito del signor G, in guisa di Dio angiolieriano, a non credere solo ai palpiti del cuore o solo agli alambicchi della ragione!

Ci si augura che questa breve summa sia riuscita nel suo intento di dar evidenza di come siamo soliti argomentare e contro-argomentare quando è in gioco la morale. Questo, lo si ripete, era il fine.

N.B. Per chi volesse approfondire i temi trattati, si consiglia la lettura di “Giustizia-Il nostro bene comune” di Michael Sandel, edito Feltrinelli, cui si rimanda, oltre che al mio precedente scritto “Oltre il merito”, pubblicato su questo stesso blog,  anche per i casi solo citati nel testo (gladiatori e Ford Pinto). Per chi preferisse il video alla carta, le lezioni del medesimo Sandel all’università di Harvard sono disponibili su youtube (questo articolo prende spunto dalla prima).
Infine, per chi cercasse qualcosa di più immediato, si consiglia l’ascolto all’istante del pezzo di prosa “Sogno in due tempi”, da “E pensare che c’era il pensiero”, di Giorgio Gaber.

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