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Crescere all’ombra delle sbarre

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Ringraziamo l’associazione Keiron – la Casa dei Penalisti per questo articolo.

Contributo di Irene Sciarma

Il rapporto madre-figlio è forse il più importante che si possa andare a creare durante la vita di una persona: cosa succede, allora, se la madre ha commesso un reato e si trova in carcere?
Immaginate di essere un bambino e di guardare il sole dalle grate di una cella senza sapere il perché.
Si potrebbe dire che il rapporto madre detenuta-figlio sia l’esempio più lampante della c.d. portata bilaterale della pena, ossia del fatto che gli effetti dell’esecuzione penale non riguardano solo la persona condannata, ma colpiscono indirettamente anche i soggetti affettivamente vicini a questa. Queste persone si vedono private, o comunque limitate, di una parte importante della propria vita e della propria sfera affettiva, con il rischio che ciò comprometta il loro sviluppo psicologico e la loro crescita fisica, emotiva e sociale.

La particolare situazione delle madri detenute pone una serie di problematiche umane e sociali che possono essere guardate da molteplici punti di vista, esemplificativi della complessità della questione. Quest’ultima vede coinvolti soggetti molto diversi tra loro, i quali sono portatori di interessi, diritti e doveri, spesso anche tra loro contrastanti. Infatti, da un lato, la legge deve garantire che la persona colpevole venga punita per il reato commesso; dall’altro, però, il detenuto ha anche il diritto di vedersi garantita una pena finalizzata alla rieducazione e al reinserimento nella società (alcuni studiosi, a tal proposito, hanno equiparato la funzione genitoriale al lavoro socialmente utile) e, inoltre, in quanto anche genitore, continua a sussistere nei confronti del medesimo il dovere genitoriale di educare i figli. Infine, ma non sicuramente per importanza, ci sono i bambini, i quali hanno sì il diritto di essere accuditi dai genitori, in particolare dalla madre nei primi anni di vita, ma anche quello di vivere con loro in un ambiente idoneo a garantire la loro integrità psico-fisica e la loro salute.

Si nota, quindi, come il diritto dei bambini a crescere con la propria mamma e a non vedersi privati della possibilità di creare un legame affettivo con lei, si scontri con la realtà di vivere in un ambiente ristretto, che spesso si sostituisce completamente alla madre, soprattutto in quelle attività esterne previste per i bambini, come le passeggiate, gli accompagnamenti al nido e tutte le esperienze dalle quali la madre è esclusa. Alcuni studiosi, poi, fanno notare che questa situazione, in cui i due vivono e creano una relazione esclusivamente all’interno di una cella, spesso porti all’eccesso opposto, ossia alla creazione di un legame morboso, con una madre al contempo iperprotettiva e permissiva.

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Negli anni, quindi, varie leggi si sono susseguite cercando di trovare una soluzione che permettesse di contemperare l’esigenza di espiazione della pena da parte della donna con quella dei bambini di non vedersi separati dalla madre.

La prima legge ad affrontare questo problema è stata la legge sull’ordinamento penitenziario 354/1975, con la quale è stata introdotta la possibilità per le madri detenute di tenere presso di sé i figli fino al compimento del terzo anno di età, con il conseguente obbligo per l’Amministrazione penitenziaria di predisporre asili nido all’interno delle strutture carcerarie.
Nel 1998 la legge Simeoni-Saraceni ha ampliato l’ambito di applicazione della detenzione domiciliare e della semidetenzione per madri con figli di età inferiore a 10 anni.
A partire dal 2001, la legge Finocchiaro ha favorito la possibilità per le madri con figli a carico di accedere a misure cautelari alternative alla detenzione. La legge, quindi, ha imposto un’ipotesi speciale di detenzione domiciliare e la possibilità di assistenza dei figli minori all’esterno del carcere.
La riforma più importante però è intervenuta nel 2011, anno nel quale sono state introdotte una serie di modifiche al codice di procedura penale e alla legge sull’ordinamento penitenziario.
La riforma del 2011 ha, innanzitutto, aumentato l’età dei bambini al di sotto della quale non si può prevedere la detenzione in carcere, la quale è passata da 3 a 6 anni; ma soprattutto, ha introdotto l’art 285-bis c.p.p., con il quale si è stabilito che le donne incinte o con figli fino a 6 anni, condannate a pene detentive, non vengano più detenute all’interno del carcere, bensì presso un ICAM, salvo ipotesi in cui vi siano esigenze di eccezionale rilevanza.
L’acronimo ICAM sta ad indicare gli istituti di custodia attenuata per detenute madri. Si tratta di case-famiglia protette dove le detenute incinte o le madri detenute, insieme ai loro bambini fino all’età di 6 anni, possono eseguire la loro pena con la modalità della detenzione domiciliare. Si tratta di veri e propri appartamenti, inseriti nel contesto urbano, che possono ospitare fino a sei famiglie ciascuno e che, garantendo la privacy di una vera casa, permette a madri e figli di vivere una quotidianità pressoché normale, permettendo anche la possibilità di accompagnare i bambini a scuola o dal pediatra, se necessario.
La creazione di questi istituti è una delle attuazioni che negli anni sono state date all’art. 31 co. 2 Cost., che riguarda la protezione delle madri e dei bambini; infatti, come si potrà ben immaginare, la vita dei bambini in queste case-famiglia è molto più vicina alla normalità e garantisce sicuramente di più il corretto sviluppo psico-fisico del minore, che è il bene primario che bisogna tutelare e che non bisogna mai perdere di vista in tutte le riforme e in tutte le leggi che riguardano l’argomento.

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Attualmente gli ICAM sono due strutture, una a Milano e una a Venezia.
Degli ICAM poi si parla anche nel nuovo art. 47-quinquies ord. pen. In generale, questo articolo si occupa della detenzione domiciliare speciale, prevedendo che qualora sia possibile ripristinare la convivenza con i figli, le detenute-madri possano essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo. In particolare, poi, al co. 2-bis si prevede la particolare possibilità per cui, salvo per particolari delitti stabiliti dall’articolo stesso, le donne incinte e le madri con figli di età non superiore a 10 anni possono espiare almeno un terzo della pena o almeno 15 anni (se la pena è l’ergastolo) presso uno di questi istituti.

Infine, nel 2014 è stata firmata in Europa la “carta dei figli dei genitori detenuti”, la quale è il risultato di un lungo dialogo tra Ministro della Giustizia, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dal Presidente dell’associazione “Bambinisenzasbarre” e dove si ribadisce il diritto del bambino alla continuità di un legame affettivo e, al contempo, il diritto del detenuto alla genitorialità. I vari articoli di questa carta si occupano di tutelare i diritti del bambino, a partire dalle visite nell’istituto penitenziario, passando dalla formazione del personale dell’Amministrazione penitenziaria che avrà a che fare con loro, fino ad arrivare, appunto, ad occuparsi della permanenza dei bambini nel carcere nei casi eccezionali in cui il genitore non può accedere alle misure alternative.

Nonostante tutte le possibilità che sono state create nel corso degli anni e sebbene il numero sia in diminuzione, le statistiche rilevano che, ancora nel 2019, i bambini che vivono in carcere con le proprie madri sono 55, di cui il maggior numero in Campania, cui seguono San Vittore, Le Vallette e Rebibbia.
Insomma, nel corso degli anni le leggi hanno sicuramente fatto dei passi avanti cercando di tutelare e di contemperare i diritti e gli interessi di questi bambini, ma la situazione rimane comunque drammatica perché questi, crescendo, vivranno sempre un dissidio interiore, divisi tra amore e odio nei confronti di una madre che forse non riusciranno mai a perdonare veramente.

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