Della recente vacanza in Marocco ho assorbito i cieli limpidi, i volti gentili, i colori sfavillanti, i sapori speziati e i profumi di un ‘diverso’, assai tiepido e accogliente. Durante la permanenza a Marrakech mi sono concessa un massaggio decontratturante, perché la schiena potesse tornare eretta, dopo che le settimane in sessione, china sulla scrivania, l’avevano costretta in pose alquanto anomale.
Alla fine del trattamento sono rimasta sola nella stanza buia. La delicatezza con cui mi è stata posta una benda sugli occhi suggeriva di rilassarmi, sentire. Il profumo dell’olio di argan, l’effluvio della piccola candela alla vaniglia che timidamente sfavillava in un angolo. Distendere ulteriormente i muscoli, avvertire la nuova leggerezza negli arti, assecondare il respiro, sempre più lento, profondo, vivo.
E invece mi sono alzata di scatto, ho tastato le pareti in cerca del mio accappatoio, sono uscita dalla stanza a passo svelto precipitandomi negli spogliatoi, per lavarmi vestirmi uscire e non sprecare neanche un minuto neanche un secondo di tempo.
Non ci ho pensato, che il tempo non esiste. E se esiste, allora è un albero di momenti, che fiammeggiano in delicate ampolle di cristallo. Ogni momento, perché sia, ha bisogno dell’ampolla del giusto diametro, del giusto spazio e del giusto tempo. La forzata collisione tra cristalli distrugge e confonde l’essenza dei momenti.
Quel giorno, a Marrakech, mi ero svegliata dieci minuti più tardi del solito, e per questo avevo creduto di dover rinunziare alla mia meditazione giornaliera, per risparmiare tempo.
Non ci ho pensato, che ventitré ore e cinquanta minuti di presenza sarebbero state meglio di ventiquattro di assenza.
Anche la mente, per abitare ciascun momento, ha bisogno di tempo e spazio. Un vero e proprio Headspace, nome di battesimo di un’app di meditazione da sette milioni di download.
In una intervista per British Vogue, il suo fondatore, Andy Puddicombe, esorcizza il vuoto di non conoscenza al riguardo, e rischiara l’ombra dei pregiudizi occidentaloidi, che sono soliti confinare nel recinto dei tabù tutto ciò che attiene all’interiorità e alla spiritualità.
Il primo, la differenza tra la meditazione e la mindfullness. Quest’ultima è la presenzaconsapevole, l’esserci al cento per cento, dimorare con corpo e anima in ogni ampolla di cristallo: possiamo esserci ovunque e sempre. La meditazione, invece, è una pratica, è un dono di tempo che periodicamente concediamo alla nostra mente perché respiri, sia libera e possa tornare coscientemente nella sua dimora.
Entrambe non sono un gioco. Spesso o sempre saltelliamo in punta di piedi tra impegni e faccende, e meramente sussistiamo, con la mente siamo dispersi, sospesi tra altri impegni e faccende. E se meditiamo, quando lo facciamo, non dovremmo saltare neppure un giorno, perché — ci sembra — ne basta uno per “perdere il ritmo”.
Il secondo, “l’ora della meditazione”. Secondo Puddicombe, non si dovrebbe associare la pratica a un orario preciso, bensì a un’abitudine. Al caffè del mattino, o alla pausa pranzo, ad esempio. Consapevoli che sono necessari almeno due mesi perché la meditazione entri di diritto nella nostra routine.
Il terzo. Possiamo praticare la meditazione anche se non siamo monaci tibetani. Non si tratta del ‘valore aggiunto’ a uno stile di vita già perfettamente sano. Proprio il ritagliare uno headspace può essere il primo passo verso un graduale miglioramento delle proprie abitudini.
Il quarto, quality rather than quantity. Possiamo beneficiare anche di cinque minuti di meditazione, purché siano circoscritti solo e davvero alla pratica, purché il cristallo della piccola ampolla rimanga intatto.
Quattro battute per estraniare noi comuni mortali dalla paura di meditare, dal timore ingiustificato di rimanere imprigionati in una dimensione ascetica del nostro spirito, senza via di uscita. È un labirinto in cui vale la pena perdersi, per qualche minuto al giorno. Non solo a detta di Andy Puddicombe.
Qualche anno fa, le menti dei monaci tibetani sono state studiate durante la pratica, per verificare l’eventuale impatto fisiologico della meditazione. La risposta è stata affermativa: quando meditiamo, non avvertiamo solo nebulose sensazioni positive (“feeling kinda good…”), ma il nostro cervello subisce dei cambiamenti. Secondo la rivista Scientific American, meditatori costanti subiscono significativi ampliamenti di volume della corteccia prefrontale e insulare. Inoltre, uno studio condotto presso l’università di Harvard, ha evidenziato come la pratica contribuisca alla riduzione volumetrica dell’amigdala, l’area cerebrale responsabile della paura. Ne risulterebbe una maggiore capacità decisionale e un miglior controllo dello stress.
Volerne beneficiare è una scelta egoista? A questo interrogativo risponde il quinto punto di Puddicombe. Essere tutti più presenti, anche nelle relazioni, aumenta la connessione e l’empatia con chi ci circonda. La sua applicazione sta costruendo una comunità, estesa su tutto il pianeta, che sviluppa continui scambi e opportunità di crescita, coronando il progetto di un vivere comune più consapevole per i singoli e più sereno per la collettività.
“Per quale motivo prediligiamo l’insegnare ai bambini la trigonometria anziché la gentilezza, la felicità e la connessione con gli altri?” afferma Andy entusiasta, annunciando l’arrivo di Headspace per bambini. Alcuni l’hanno già provata a scuola, reagendo positivamente. Con l’introduzione di questa novità, il team dell’app si impegna a trasmettere alle generazioni successive la sensibilità adeguata per ciò che concerne la mente, un organo che, come tale, necessita salute e richiede cure appropriate, qualora sia malata.
Oggi, spesso, non ci pensiamo.
Secondo il National Insitute of Health in America, entro dieci anni i costi per curare le malattie mentali saranno maggiori di quelli per cancro, diabete e malattie respiratorie nell’insieme. Globalmente ammonteranno a sei triliardi di dollari.
In Italia, diciassette milioni di persone convivono con un disturbo mentale. L’ansia, la depressione, l’insonnia e il disturbo post traumatico da stress sono tra i più diffusi. Tra queste, solo una su tre riceve le cure adeguate. Per il resto, si pensa che minimizzare il problema, chiamare in causa la “forza di volontà” o accusare il malato della sua malattia, possano equivalentemente portarlo alla guarigione. O più spesso, si tace, per paura di essere ‘matti’.
Anche nei discorsi quotidiani dovremmo impegnarci a creare uno headspace. E nelle scelte linguistiche, evitare di prostituire parole inadeguate. Se cambiamo idea facilmente, siamo indecisi e non bipolari. Se oggi abbiamo voglia di piangere, siamo tristi e non depressi. Se commentiamo la corporatura di una ragazza molto esile, lei è magra e non anoressica. E se qualcuno è malato per davvero, allora ha un disturbo mentale, non è il disturbo mentale. Anche parlando commettiamo errori, perché non ci pensiamo.
E se invece decidessimo di cominciare a pensarci? Per cinque minuti soltanto. Al mattino, appena svegli. Prima di assaporare il caffè. O dopo un massaggio all’olio di argan. Disegnare un contorno attorno ai pensieri, risvegliando lo spirito nello headspace. E poi ripartire a saltellare, tra gli impegni, le faccende, forse stavolta poggiando i talloni per terra. Stavolta tastando la densità delle sensazioni, sfiorando le ampolle di cristallo senza mai romperle.
Provare per credere.
Dal cartaceo di marzo 2020
Born in 2000, she started talking and rebelling very early and never stopped. Currently an ACME student, in the free time she enjoys writing, philosophising and listening to techno.