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Sulle nostre gambe

La mafia dei pascoli

La mafia dei pascoli
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Centinaia di ettari di terreno nel parco dei Nebrodi, in Sicilia, sono stati prima sottratti ad agricoltori e allevatori e poi usati per incassare – in maniera apparentemente legale – i contributi dell’Unione Europea previsti dalla PAC (Politica Agricola Comune): una vera e propria “mafia dei pascoli”. È così che Cosa Nostra porta avanti questa attività tanto silenziosa quanto redditizia fino all’arrivo di Giuseppe Antoci, uomo capace di mettere in crisi il business bucolico. Di recente, il giornalista Massimo Giletti ha dato voce alla storia delle sorelle Napoli, da anni nel mirino dei boss per il controllo dei loro terreni.

Un contributo di Eugenia Carretta

La nomina di Giuseppe Antoci

Da circa 20 anni intere famiglie mafiose si appropriano dei fondi europei stanziati per la valorizzazione dei terreni incolti: i boss locali, attraverso estorsioni e minacce rivolte agli allevatori e agricoltori del Parco dei Nebrodi, riescono ad impossessarsi dei loro terreni e ad incassare, poi, pagamenti dai fondi europei per un valore stimato di quasi tre miliardi di euro. Si tratta di una truffa significativa che ha permesso alle cosche di creare alla luce del sole le “money laundries”: una serie di attività che permettono di riciclare tutti gli incassi illegali della mafia. Non è casuale che teatro di questo business miliardario sia proprio il Parco dei Nebrodi, area controllata dai Barcellonesi, dai Tortoriciani, dai Santapaoliani e dai Corleonesi, famiglie che, attraverso un’autocertificazione in cui negano legami con la mafia, riescono a procurarsi ingenti profitti in modo sicuro e silenzioso. Le prime segnalazioni per danni alle casse comunitarie risalgono al 1997: fino a quell’anno non vi è stato un particolare interesse a far emergere la questione, tanto che miliardi di “piccioli europei” sono finiti nelle tasche dei boss anche con il silenzio-assenso della politica di allora.

Nell’ottobre 2013, però, viene nominato presidente del parco Giuseppe Antoci, già dottore commercialista e politico: da questo momento il vento inizia a cambiare direzione. Antoci, infatti, grazie all’aiuto di molti sindaci dei 24 comuni appartenenti dell’area del Parco, riesce a scardinare i meccanismi di pressione e intimidazione utilizzati da Cosa Nostra a danno dei coltivatori locali.

Il Protocollo della Legalità contro la “mafia dei pascoli”

Come spiega Nuccio Anselmo nel libro “La Mafia dei pascoli”, le cosche in Sicilia agiscono su due fronti: da una parte sui sindaci, spingendoli, anche controvoglia, a fare bandi per l’assegnazione dei fondi; dall’altra sugli allevatori e agricoltori, impedendo loro con la forza di partecipare ai bandi così da “aggiudicarsi il bottino”. Per tentare di risolvere il problema, Antoci, insieme al prefetto di Messina, Stefano Trotta, inizia lo studio di quello che poi diventerà il “Protocollo della Legalità”: trattasi di un documento con novità significative riguardo alle concessioni dei terreni agricoli.

In particolare, il Protocollo Antoci impone alle aziende la certificazione antimafia ottenuta dalla Prefettura competente per poter mettere in affitto i terreni agricoli idonei a beneficiare dei fondi stanziati dall’UE, e ciò indipendentemente dal loro valore complessivo. In tal modo si impedisce ai mafiosi di utilizzare l’informativa antimafia per eludere le norme a tutela del procedimento di assegnazione dei fondi comunitari. É evidente che attraverso tale sistema è stato inferto un significativo colpo economico alle famiglie mafiose siciliane, poiché è stato impedito il guadagno di ingenti somme di denaro mediante questo tipo di “truffa legalizzata”.

Naturalmente, i boss dell’agromafia hanno recepito con grande sfavore l’adozione del Protocollo della Legalità: a conferma di ciò nel maggio 2016 Giuseppe Antoci ha subìto un attentato mafioso dal quale è riuscito a salvarsi grazie alla scorta e all’auto blindata.

Il 27 Settembre 2017, il “Protocollo Antoci” è stato approvato dalla Camera dei Deputati ed è diventato Legge di Stato con 129 voti favorevoli. Tale Protocollo è stato esteso dunque a tutta la penisola italiana con l’obiettivo di aumentare i controlli e inasprire le pene contro la mafia agropastorale.

La storia delle sorelle Napoli

Nel 2017 il giornalista Massimo Giletti ha portato all’attenzione pubblica una storia di coraggio e determinazione che ha come protagoniste Marianna (Anna), Gioacchina (Ina) e Irene Napoli. Le sorelle Napoli vivono a Mezzojuso, comune del palermitano in cui il boss Bernardo Provenzano era solito nascondersi, aiutato anche dal silenzio dei suoi abitanti.

Il primo a fare i conti con la c.d. “mafia dei pascoli” è stato il padre delle tre sorelle, Totò Napoli, che coltivava i suoi terreni avvalendosi di tecniche innovative e diverse da quelle solitamente utilizzate dagli altri agricoltori di Mezzojuso fermi, nella coltivazione, a 200 anni addietro.

In tale contesto economico e sociale chi modernizza non può passare inosservato. Ben presto, infatti, Totò Napoli inizia ad essere destinatario di lettere anonime e di ripetuti atti di dileggio e calunnia. Si sa che il progresso è cultura e che la cultura rende liberi. Ciò evidentemente turba la mafia: altri agricoltori, imitando Totò Napoli, avrebbero potuto apprendere nuovi saperi, svincolandosi così da chi garantiva protezione e favori in cambio di una tacita sottomissione.

Dal 2006 Anna, Ina e Irene hanno iniziato a gestire i loro 90 ettari di terreno senza mai cedere alle richieste dei mafiosi, denunciandone invece i soprusi e le prevaricazioni. L’azienda agricola ereditata dalle tre sorelle è entrata da subito nel mirino di alcuni mafiosi- tra cui Simone La Barbera, figlio di Cola La Barbera, postino di Provenzano e boss di Mezzojuso- che auspicavano di impadronirsene facilmente.

Purtroppo per la mafia, però, questo non è mai accaduto poiché le sorelle Napoli hanno avuto il coraggio di denunciare le intimidazioni e i raid vandalici subìti. “Hanno avvelenato i cani, hanno lasciato delle pozzanghere di sangue; infine, hanno rotto le recinzioni e hanno mandato vacche, pecore e cavalli a distruggere tutto” racconta Ina a “Non è l’Arena” su La7. Addirittura, le invasioni dei terreni delle tre sorelle, che negli anni non sono mai finite, sono state effettuate con animali di proprietà dell’Istituto Zootecnico Regionale, che confina con i terreni delle sorelle Napoli. A tutto ciò si sono aggiunte significative difficoltà a cui le tre sorelle hanno dovuto far fronte per riuscire a vendere i loro prodotti agricoli. Tale situazione non è cambiata neppure dopo lo scioglimento per mafia del Comune di Mezzojuso, avvenuto nel dicembre 2019.

Ciò che colpisce di più di questa storia è il comportamento di buona parte della comunità di Mezzojuso, che, da quando il racconto di Anna, Ina e Irene è diventato di dominio pubblico, ha calunniato ed emarginato le sorelle Napoli invece di sostenerle e aiutarle. Emblematico, a questo proposito, è stato il confronto televisivo avvenuto nel maggio 2019 tra l’allora sindaco di Mezzojuso Salvatore Giardina, le sorelle Napoli, i cittadini di Mezzojuso e il giornalista Massimo Giletti. Il dibattito si è trasformato in uno spettacolo grottesco fatto di fischi, insulti e minacce lanciati dagli abitanti di Mezzojuso alle sorelle e al giornalista. Tale evento, purtroppo, rispecchia il contesto omertoso e vigliacco di chi con la mafia ormai (e purtroppo) è abituato a convivere.

Giovanni Falcone ha detto “in Sicilia si muore perché si è soli” e le sorelle Napoli lo sanno bene, avendo subìto l’abbandono di quasi tutta la comunità di Mezzojuso nella lotta coraggiosa e perseverante contro uno dei flagelli più drammatici degli ultimi tempi: la Mafia dei Pascoli.

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Bocconi Students against Organized Crime è la prima associazione di studenti bocconiani a trattare il tema della criminalità organizzata dal punto di vista economico, sociale e organizzativo.

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