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L'angolo del penalista

Plagio e manipolazione: lo strano caso di un delitto anticostituzionale

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Mentre l’Italia e il Mondo sono scossi da grandi movimenti di riforma sociale, in Italia si conclude con una lunga condanna uno strano processo. L’accusa è quella di plagio, non nella sua più comune accezione accademica, ma bensì nell’ipotesi di manipolazione delle idee altrui.

Un articolo di Giulio Angius

È il 1968. Mentre i Beatles pubblicano il loro nono album, con tracce come “While my guitar gently weeps” e “Blackbird”, l’Italia e il Mondo attraversano un periodo di grandissimi cambiamenti sociali. È il periodo delle rivolte studentesche, dell’occupazione de La Sapienza a e degli scontri di Valle Giulia. È una rivoluzione, soprattutto etica, contro i valori diffusi dalla società capitalista: individualismo, potere ed esaltazione della tecnologia, corsa ai consumi.  

In questo clima, a Roma, si conclude il processo Braibanti.  

La storia  

Aldo Braibanti, drammaturgo e scrittore, sin dai primissimi anni ‘60 aveva creato, a Castell’Arquato, in provincia di Piacenza, quella che è stata definita «una associazione di giovani dalle idee esistenzialiste e dalle strane abitudini, sia per il modo di vestire e sia per gli atteggiamenti esterni». Dopo un passato tra le file partigiane durante la Seconda guerra mondiale, lo scrittore aveva infatti creato un centro di ritrovo per intellettuali che non allineavano il loro pensiero con la nuova corrente capitalista. Braibanti, nel 1962, decidendo di tornare nella capitale, era stato seguito da un giovane, Giovanni Sanfratello, volenteroso di scappare dagli ideali e dalle pressioni della famiglia ultraconservatrice. Questa scelta non sarà però accettata di buon grado da Ippolito Sanfratello, padre del giovane, il quale, tramite una non chiarissima collaborazione con un pubblico ministero, presenterà nei confronti di Braibanti una denuncia alla procura di Roma: l’accusa è quella di plagio.  

Il reato di plagio  

Il reato di plagio, nella sua concezione moderna del codice Rocco del 1930, puniva genericamente «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, […] con la reclusione da cinque a quindici anni», lasciando però alla discrezione dei giudici quali condotte integrassero questa fattispecie. La disciplina del codice fascista aveva sostanzialmente modificato il significato che in precedenza questo termine aveva nell’ordinamento penale italiano. Sotto la vigenza del codice penale Zanardelli (1888) il reato di plagio veniva infatti integrato solo da chi riduceva «una persona in schiavitù o in altra condizione analoga». L’allargamento delle “maglie” della fattispecie operato dal codice del 1930 (con la soppressione del riferimento alla schiavitù) e la sua “psicologizzazione” l’aveva privata di quel necessario carattere oggettivo, essenziale per non lasciare l’applicazione di una norma in completa balìa dell’arbitrio dell’interprete.

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Il processo

Durante il processo, “la piscologizzazione” della fattispecie del reato emerge con tutta la sua forza; Il pubblico ministero arriverà a dichiarare:

“il giovane Sanfratello era un malato, e la sua malattia aveva un nome: “Aldo Braibanti, signori della Corte! Quando appare lui tutto è buio”.  

Viene anche dato peso alla dichiarazione di un giovane col quale Aldo Braibanti aveva fatto alcuni viaggi lungo l’Italia nell’estate del 1960, Piercarlo Toscani, che all’epoca dei fatti aveva 19 anni e che lo accusò dichiarando tra le altre cose:

“il Braibanti aveva tentato di introdursi nella mia mente con le sue idee politiche, cioè comunismo in nome di una libertà superiore e ateismo […] cominciò ad impedirmi le letture di svago a me usuali […] tali impedimenti non erano su basi di una prepotenza esteriore, ma sulla base di una prepotenza interiore, intellettuale, che è molto più forte dell’altra”.  

Forti furono le conseguenze, anche mediatiche, con molti giornali della destra ufficiale che si scagliarono contro quello che chiamavano “il professore”, “il mostro”, “l’omosessuale”. 

Durante lo svolgimento del processo, le parole di Giovanni Sanfratello non verranno nemmeno considerate dai giudici. Il giovane, infatti, affermò sempre di essersi allontanato spontaneamente dalla casa familiare, proprio per sfuggire alle pesanti aspettative familiari che non gli consentivano di esprimere appieno la propria personalità. Per i giudici, queste affermazioni non furono altro che una ulteriore conferma della consumazione del reato.  

Il processo Braibanti dura in totale 4 anni, e si conclude con una condanna a 9 anni di reclusione, che in appello verranno ridotti a sei. Dopo due anni di reclusione, Braibanti verrà scarcerato, riconoscendogli i meriti di partigiano della resistenza. La Corte capitolina non ignorava infatti che già prima degli anni ’60 parte della dottrina aveva ritenuto inapplicabile questo reato per via della sua indefinitezza normativa, bollandolo come «un assurdo giuridico poiché un rapporto di soggezione di un soggetto verso un altro soggetto è dato di essere configurato inevitabilmente in innumerevoli situazioni che invece la coscienza etico-sociale accetta ed approva»  

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È probabile che la dottrina citata dalla Corte d’assise di Roma, che escludeva la stessa configurabilità giuridica del plagio, facesse riferimento ai precedenti casi giudiziari che si erano conclusi con assoluzioni anche laddove era stata appurata una situazione di sudditanza psicologica ma in contesti ideologicamente più “affini” alla società dell’epoca (ad esempio nel 1956 il Tribunale di Torino aveva escluso il reato di plagio in un caso in cui un marito aveva segregato, imposto l’utilizzo di una cintura di castità e inferto altre sofferenze fisiche e morali alla moglie convivente). 

Tuttavia, secondo i magistrati che condannarono in primo grado Braibanti, il plagio non costituiva un reato impossibile come talvolta era stato sostenuto ma era piuttosto compito della giurisprudenza andare a definire nella pratica i confini di questa fattispecie criminosa. La tutela della libertà di autodeterminazione dell’individuo che esso presidiava costituiva infatti un bene giuridico essenziale (e si citavano a riguardo la Dichiarazione Universale dei diritti umani dell’Onu del 1948, e la Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata dagli Stati membri del Consiglio di Europa e ratificata in Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848) che andava quindi garantita anche dall’ordinamento penale.

Il processo provocò una grandissima eco mediatica, apparendo presto chiara la sua vera natura politica, proposta come l’estremo tentativo del vecchio ordine sociale di imporre i propri valori contro la marea montante del Sessantotto. A seguito della sentenza, numerosissimi uomini di cultura si mobilitarono a favore di Braibanti, alcuni tra questi Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia.

Chi però darà vera giustizia ad Aldo Braibanti sarà la Corte Costituzionale, che ben tredici anni dopo smonterà giuridicamente la configurabilità astratta di questo delitto.

La questione di Costituzionalità

La questione di costituzionalità del plagio verteva in particolare sul contrasto dell’art. 603 c.p. con il principio di tipicità della norma penale di cui all’art. 25 co. 2 della Costituzione. Dopo un lungo approfondimento di carattere storico, giuridico, medico e sociale, la Consulta concludeva per l’assoluta indeterminatezza della condotta criminosa e quindi per l’incostituzionalità del delitto di plagio. La Corte scriveva:

«La formulazione letterale dell’art. 603 prevede pertanto un’ipotesi non verificabile nella sua effettuazione e nel suo risultato non essendo né individuabili né accertabili le attività che potrebbero concretamente esplicarsi per ridurre una persona in totale stato di soggezione, né come sarebbe oggettivamente qualificabile questo stato, la cui totalità, legislativamente dichiarata, non è mai stata giudizialmente accertata».  

Come nota la Corte, infatti, la condanna di Braibanti aveva profondamente scosso la coscienza collettiva, sia sociale che anche giuridica, dell’intero paese; rendendo dunque palesi le difficoltà nel dare al delitto una interpretazione coerente. L’imprecisione, l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuirle un significato oggettivo rendevano quindi la sua applicazione del tutto arbitraria e, dunque, non compatibile con il dettato costituzionale. 

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Nonostante il triste caso Braibanti rimanga un unicum nella storia giudiziaria italiana, il dibattito sulla rilevanza penale delle condotte di indottrinamento è rimasto quasi sempre attuale. L’incremento di episodi di condizionamento psicologico e indottrinamento religioso, dei quali si è parlato in maniera costante soprattutto negli ultimi 5 anni, porteranno sicuramente in futuro a chiedersi se oggi il diritto riesca a fornire una adeguata tutela al diritto di formare liberamente il proprio pensiero.

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