Un contributo di Andrea Avino
La prova testimoniale è essenziale nell’ambito del processo penale. La sua attendibilità è tuttavia minacciata dall’incombenza di un fenomeno che, in special modo negli ultimi anni, la psicologia forense ha posto in luce: il falso ricordo. Nell’articolo si discutono, oltre alle caratteristiche del fenomeno, le ragioni che lo rendono particolarmente rilevante sul piano del diritto penale sostanziale e processuale e le possibili soluzioni proposte dagli studiosi per mitigarne la portata.
La prova testimoniale nel processo penale
Spesso considerata nell’immaginario collettivo come la prova regina del processo penale, la testimonianza rappresenta uno dei molti mezzi di prova contemplati e disciplinati nell’ordinamento giuridico italiano.
Regolata dagli articoli 194 e seguenti del Codice di Procedura Penale, la testimonianza è una prova dichiarativa che, per definizione, deve vertere su fatti determinati. In altre parole, lo scopo della testimonianza è di fornire prova circa la sussistenza di uno o più fatti storici cui il testimone ha partecipato o assistito, mediante il ricorso alla memoria.
Dunque, il ruolo del testimone è essenzialmente quello di riprodurre verbalmente – nel contesto del contraddittorio tra le parti – dei contenuti mnestici riferiti a un dato evento storico, ovvero dei ricordi. Nel far ciò, il testimone è chiamato a dire la verità, ergo, citando l’articolo 372 del Codice penale intitolato “falsa testimonianza”, a non affermare il falso e a non tacere né in tutto né in parte “intorno ai fatti sui quali è interrogato”, pena la reclusione da due a sei anni.
Il fenomeno del falso ricordo
Recenti casi di cronaca e pubblicazioni scientifiche hanno gettato ombre sulla complessiva attendibilità che i relati dal testimone possono avere nell’ambito del processo penale, ciò a causa dell’esistenza del fenomeno del cosiddetto “falso ricordo” o “confabulazione”. In psicologia, con queste espressioni si fa riferimento alla falsificazione di un ricordo che avviene in buona fede, nella totale inconsapevolezza dell’agente. Secondo gli studi, esistono due macro-categorie di confabulazioni. Da un lato, vi sono falsi ricordi creati autonomamente dall’agente, solitamente a causa di un danno celebrale o di una malattia neurologica. Dall’altro, invece, vi sono falsi ricordi impiantati da soggetti terzi – poliziotti, terapisti, persone care – tipicamente a danno di individui particolarmente fragili come minori e anziani. Non sempre il terzo innesta il falso ricordo nella memoria del testimone in maniera consapevole: può accadere infatti che la confabulazione non sia altro che la conseguenza inaspettata di un’azione attuata in buona fede, quale può essere l’utilizzo da parte degli investigatori di tecniche d’interrogatorio suggestive.
Un recente studio svolto dalla Dottoressa Julia Shaw, attualmente Honorary Research Associate presso lo University College London (UCL), ha dimostrato che è in special modo nell’ambito di relazioni interpersonali caratterizzate da forte fiducia che i falsi ricordi possono essere impiantati con facilità. Durante l’esperimento, a seguito di un colloquio con i rispettivi genitori, la psicologa ha chiesto a un gruppo di studenti canadesi se ricordassero determinati eventi riguardanti la loro infanzia, alcuni realmente accaduti e altri inventati. Nonostante inizialmente tutti i partecipanti abbiano negato la veridicità degli eventi inventati, mediante l’utilizzo di alcuni esercizi di immaginazione e facendo leva sul fatto che i racconti provenissero dai loro genitori, molti dei partecipanti all’esperimento hanno infine genuinamente ammesso di ricordare con chiarezza fatti che altro non erano che frutto della fantasia della ricercatrice.
Insomma, la memoria non è un deposito di fatti e sensazioni immutabili, quanto un fiume in piena che nel suo scorrere continuo può arrivare a riscrivere il ricordo di fatti, sensazioni ed emozioni. Di conseguenza, può accadere che esperienze che paiono essere state vissute, non solo si siano svolte in maniera differente ma, nei casi più eclatanti di confabulazione, non riflettano in alcun modo la verità storica.
Le conseguenze del falso ricordo e come mitigarle
A fronte della mancanza di malafede intorno alla verbalizzazione del falso ricordo, tale fenomeno va distinto nettamente dalla falsa testimonianza, severamente punita dal legislatore: infatti, il testimone che in giudizio afferma l’esistenza di un fatto storico nella convinzione che quel fatto sia avvenuto, quindi sulla base di un ricordo inconsapevolmente mistificato, non sta attentando dolosamente al normale svolgimento dell’attività giudiziaria. Nonostante questa necessaria distinzione, va detto che le pericolose conseguenze ricollegabili al reato di falsa testimonianza non sono per nulla diverse rispetto a quelle che possono palesarsi a seguito della verbalizzazione in giudizio di un falso ricordo. In entrambi i casi il rischio di commettere clamorosi errori giudiziari è palpabile e porta a dover riflettere sulla consapevolezza che gli addetti ai lavori, in special modo giudici e avvocati, hanno del fenomeno della confabulazione.
Quanto a ciò, la letteratura scientifica evidenzia una preoccupante mancanza di conoscenze specifiche sul funzionamento della memoria e dei ricordi da parte degli operatori del diritto, specialmente in Europa continentale. È per questa ragione che, soprattutto negli ultimi anni, sono sempre più frequenti e accorati gli inviti rivolti alla magistratura e all’Ordine degli avvocati provenienti dal mondo della psicologia forense a istituire training ad hoc volti a istruire i giuristi, oltre che sull’esistenza del concetto del falso ricordo, anche su come individuare eventuali campanelli d’allarme circa il fatto di essere potenzialmente dinnanzi a un fenomeno di confabulazione. Un tipico indicatore è la circostanza per cui il ricordo diventa sempre più particolareggiato e ricco con il passare del tempo.
L’obiettivo da perseguire nell’introdurre elementi di psicologia forense nel ragionamento del giurista non è quello di portare l’operatore del diritto a scartare aprioristicamente la validità di ogni ricordo che non sia suffragato da altre prove oggettive, quanto quello di dare a magistrati e avvocati gli strumenti per comprendere se, sulla base delle circostanze del caso in esame, un ricordo debba essere guardato con sospetto o possa essere considerato attendibile. In altre parole, citando lo psicologo e psicoanalista Cesare Musatti, è auspicabile ed essenziale che anche nel mondo del diritto venga riconosciuto che il contenuto della testimonianza “non può mai essere pura riproduzione fotografica di un fatto obiettivo, ma il prodotto di una molteplicità di coefficienti: in parte soltanto dati dagli elementi di quel fatto obiettivo, ma in parte costituiti dalla natura stessa della personalità psichica del testimone e da tutti gli elementi esteriori che hanno agito nel passato e che attualmente agiscono sul testimone stesso”.
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