Il principio di legalità e i suoi corollari sono irrinunciabili anche in materia di responsabilità da reato degli enti, disciplinata dal decreto legislativo 231/2001. Il tema del diritto parappresentato il primo banco di prova per la tenuta del principio di legalità in ambito 231: la Cassazione, nel noto caso Ilva, si è espressa sul rispetto di questi principi nell’applicazione delle disposizioni del decreto stesso in materia di responsabilità degli enti.
Cenni essenziali sulla responsabilità da reato delle persone giuridiche
Prima del 2001, era esclusa la responsabilità da reato degli enti. Il d.lgs. n. 231/2001 ha introdotto una responsabilità dell’ente per i reati commessi al suo interno, sebbene essa sia qualificata come amministrativa. In estrema sintesi, nel caso in cui soggetti apicali o subordinati all’interno di un ente commettano specifici reati, elencati dagli articoli 24 e seguenti del decreto stesso, nell’interesse o a vantaggio della stessa persona giuridica, quest’ultima risponde direttamente dell’illecito in questione con il suo patrimonio.
Come previsto dalla legge delega, i reati ambientali avrebbero dovuto essere inseriti fin dall’inizio come reati-presupposto della responsabilità degli enti. Tuttavia, la prima versione del decreto non recepiva alcune delle indicazioni della delega e sono stati pertanto necessari altri interventi in sede europea e la loro successiva trasposizione interna per colmare questa lacuna.
Le modifiche al decreto legislativo 231 in materia ambientale
In materia di tutela penale dell’ambiente, il d.lgs. n. 121/2011, che ha recepito la direttiva n. 2008/99/CE, ha esteso la responsabilità amministrativa degli enti agli illeciti ambientali.
La direttiva in questione imponeva agli Stati membri di adottare delle misure idonee a far sì che le persone giuridiche potessero essere chiamate a rispondere dei reati ambientali indicati dalla direttiva stessa, commessi a loro vantaggio da soggetti che avessero il potere di rappresentare la persona giuridica, di prendere decisioni per suo conto e di esercitare un controllo all’interno dell’ente. Inoltre, essa richiedeva agli Stati di provvedere affinché le persone giuridiche fossero dichiarate responsabili anche se i reati a vantaggio dell’ente fossero stati agevolati dalla carenza di sorveglianza o controllo da parte dei soggetti preposti.
Il legislatore del 2011, oltre ad inserire due nuove fattispecie nel codice penale in materia (artt. 727-bis e 733-bis c.p.), ha introdotto nel d.lgs. 231/2001 l’articolo 25-undecies sui reati ambientali. Tuttavia, come evidenziato nella relazione di accompagnamento al decreto 121/2011, si trattava solo di un primo passo e si rendevano quindi necessari futuri interventi normativi.
La successiva legge n. 68/2015 sugli ecoreati, infatti, è intervenuta in maniera più incisiva a modifica del sistema, con l’introduzione del titolo VI bis del libro secondo del codice penale, intitolato dei delitti contro l’ambiente e contente fattispecie di danno e di pericolo concreto che vengono sanzionate con elevati limiti edittali di pena. La riforma ha inoltre revisionato la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, prevedendo che le nuove fattispecie del titolo VI bis entrassero nell’elenco dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente.
Principio di legalità nei reati ambientali e responsabilità degli enti: la posizione della giurisprudenza di legittimità
Ben prima dell’introduzione espressa nel 231 dei reati ambientali, nella prassi i giudici configuravano la responsabilità d’impresa per reati ambientali in alcuni casi, anche se la maggior parte delle ipotesi sanzionatorie non rientravano nelle previsioni di responsabilità amministrativa ex 231.
La Cassazione (Cass. Pen. Sez. II, 10 gennaio 2011, n. 234), nell’applicare il regime di responsabilità ex 231 alle società operanti nel settore della gestione dei rifiuti, ha consentito un primo allargamento “soggettivo” del decreto 231 ritenendo che l’applicazione del decreto stesso a società operanti esclusivamente nel settore dei rifiuti comportasse la necessità di dotarsi di un modello e di protocolli specifici a rilevanza ambientale.
Un ulteriore allargamento in senso soggettivo della disciplina del 231 su base giurisprudenziale in materia di reati ambientali è avvenuto per mezzo dell’applicazione dell’art. 24-ter, inserito nel sistema di responsabilità amministrativa degli enti nel 2009, che estende la responsabilità all’ente per reati associativi.
La Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. III, 20 aprile 2011, n. 15657), nel prevedere l’applicazione ad un’impresa individuale del reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati in materia di raccolta, smaltimento e traffico illecito di rifiuti pericolosi e non, applicava nei confronti dell’impresa la misura interdittiva richiesta dal P.M. per la durata di un anno.
Già dal 2009 i commentatori avevano evidenziato come l’inserimento del delitto di associazione per delinquere tra i reati-presupposto della responsabilità dell’ente sia in grado di attrarre nell’orbita del decreto qualsiasi reato, anche laddove non incluso nella lista chiusa di reati-presupposto previsti dal 231, con grave pregiudizio dei principi di legalità e tassatività che devono essere rispettati anche quando si persegue l’ente in sede amministrativa. L’articolo 2 del d.lgs. 231/2001, infatti, estende le garanzie del sistema penale anche al regime di responsabilità amministrativa dell’ente: le norme che sanzionano l’ente per il reato commesso al suo interno devono comunque sottostare ai principi tipici del diritto penale, soprattutto il principio di legalità e quello di irretroattività della legge penale.
Un’importante pronuncia in tema di riaffermazione del principio di legalità nel sistema di responsabilità delle persone giuridiche è stata resa proprio in materia di reati ambientali nel noto caso Ilva (Cass. Pen., sez. VI, 20 dicembre 2013, n. 3635), in cui la Cassazione, seppur nell’ambito di applicazione di una misura cautelare, si è espressa in modo molto significativo sul rispetto del principio di legalità e dei suoi corollari anche nei confronti delle persone giuridiche.
La misura cautelare (sequestro preventivo ai fini della confisca ex art. 19 del d.lgs. 231) aveva trovato applicazione nel contesto del procedimento penale a carico di alcuni vertici dello stabilimento Ilva di Taranto, imputati di più delitti contro l’incolumità pubblica, di reati contro la pubblica amministrazione e contro la pubblica fede, nonché di reati ambientali e di reati in materia di igiene, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
In particolare, alle società del gruppo Riva Fire e Ilva erano stati contestati gli illeciti amministrativi dipendenti da reato di cui all’art. 24-ter comma 2 e di cui all’art. 25-undecies, comma 2.
Nella sentenza la Corte ha sottolineato che, in base ai principisanciti dall’art. 2 del d.lgs. n. 231/2001, anche l’applicazione delle sanzioni a carico degli enti è subordinata ad una previsione legislativa espressa che sia entrata in vigore prima della commissione del fatto. Ai fini dell’applicazione della confisca, si deve fare riferimento alla data di realizzazione del reato e non al momento di percezione del profitto da parte dell’ente.
Secondo la Suprema Corte, «l’applicazione del vincolo cautelare reale e della successiva misura ablativa non può essere fatta retroagire a condotte realizzate anteriormente alla rilevata esistenza dei presupposti e delle condizioni per la stessa configurabilità della responsabilità amministrativa dell’ente, assumendo rilievo, al riguardo, solo le condotte temporalmente coperte dalla vigenza nel catalogo dei reati-presupposto, della fattispecie associativa e dagli illeciti in materia ambientale». In altri termini, ai fini dell’applicazione della sanzione non dovevano essere considerate le condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della legge del 2009 e della legge del 2015 che hanno introdotto, rispettivamente, i reati associativi e i reati ambientali nella catalogo dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente.
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