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L'angolo del penalista

Uso della macchina della verità nel processo penale

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Il nostro ordinamento vieta l’utilizzo, nei confronti dei testimoni, di strumenti idonei a influire sulla propria libertà di autodeterminazione quali : macchina della verità, narcoanalisi e ipnosi, come mezzi di accertamento dell’attendibilità delle loro testimonianze.

Che cos’è la macchina della verità e come funziona

La macchina della verità o poligrafo è un macchinario che verificando alcuni parametri fisiologici stabilisce se un determinato soggetto sta mentendo o meno. In particolare, si analizzano le alterazioni della pressione sanguigna, del polso arterioso e della respirazione. L’idea di base è che quando qualcuno dice il falso, tali parametri tendono ad aumentare, soprattutto perché mentire implicherebbe uno sforzo maggiore rispetto al dire la verità. All’interno del processo penale tale strumento potrebbe quindi essere utilizzato per decidere se una testimonianza sia attendibile o meno.

Il primo poligrafo moderno nasce nel 1913, quando William Marston, studente di psicologia presso l’università di Harvard, usò come criterio l’alterazione della pressione sanguigna per verificare la correttezza di una affermazione. Egli propose l’utilizzo della macchina nei tribunali e nel 1938 pubblicò un manuale di istruzioni del dispositivo intitolato “The lie detector test”.

Non esistono purtroppo però prove scientifiche che accertino il funzionamento di questa macchina ai fini della ricerca della verità durante una testimonianza. Sono infatti troppi i fattori che possono concorrere a falsare i risultati: consapevolezza del soggetto di stare mentendo, possibilità di alterare i risultati e il fatto che non si possa considerare certa un’analisi che abbia alla base una reazione alle emozioni.

Utilizzo della macchina della verità all’interno del processo penale in Italia

Il poligrafo potrebbe quindi essere usato durante i procedimenti penali, e in particolare durante gli interrogatori, per verificare che le risposte dei soggetti chiamati a testimoniare corrispondano alla verità dei fatti. L’utilizzo però di questo strumento è espressamente vietato dal nostro codice di procedura penale, che all’articolo 188 afferma: “Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti”.

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La norma è finalizzata a tutelare la libertà morale della persona, che non deve essere condizionata da forme di coercizione fisica, morale o psichica da parte degli inquirenti. La sanzione prevista in caso di violazione dell’articolo 188 c.p.p è l’inutilizzabilità del materiale raccolto in quanto qualificabile come prove illegittimamente acquisite. Inoltre, è facile notare che la norma opera oggettivamente quindi, anche di fronte a un eventuale consenso dell’interessato, resterebbe comunque vietato l’utilizzo della macchina della verità, essendo questa ritenuta un metodo adatto ad alterare la capacità di ricordare e valutare i fatti.

Tutto questo non significa che l’ordinamento lasci i testimoni liberi di mentire: il testimone, infatti, è obbligato a pronunciare una formula solenne in cui si impegna a pronunciare tutta la verità e a non nascondere nulla. Nel caso in cui si venga a scoprire che il testimone ha mentito, quest’ultimo potrebbe essere condannato per il reato di falsa testimonianza, che prevede come pena la reclusione da due a sei anni.

Se ci si focalizza in particolare sulle figure dell’imputato e dell’indagato, il principio di libertà di autodeterminazione è strettamente legato al diritto a non autoincriminarsi. L’interessato, quindi, non potrà essere obbligato a deporre contro sé medesimo; se tutti i soggetti del procedimento penale fossero costretti a collaborare incondizionatamente con l’Autorità giudiziaria fino al punto di autoincriminarsi, verrebbe meno la libertà morale della persona, che ha diritto di scegliere come difendersi anche quando è colpevole. Indagato e imputato non sono perciò tenuti a rispondere alle domande che vengono loro poste, e possono perfino mentire senza commettere il reato di falsa testimonianza. Il privilegio contro l’autoincriminazione è riconosciuto anche nei confronti dei testimoni qualora a seguito di risposte veritiere alle domande poste potrebbe emergere una loro responsabilità penale.

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Altri metodi e techniche vietate dall’articolo 188 del C.P.P

La dottrina ritiene che la locuzione “metodi e tecniche” presente nella disposizione in questione, faccia riferimento a quelle tecniche considerate idonee a fiaccare la volontà della persona. Queste possono avere natura fisica e consistere quindi in tortura, narcoanalisi, uso del poligrafo o del siero della verità, oppure avere carattere psicologico come l’ipnosi.

Analizzando un po’ più nel particolare queste fattispecie, vediamo il Codice penale descrivere all’articolo 613 bis la tortura come quella situazione in cui qualcuno, con violenze o minacce gravi, cagiona acute sofferenze fisiche o traumi psichici a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua vigilanza o controllo.

La narcoanalisi e l’iniezione del siero della verità sono pratiche molto simili fra loro, e consistono di per sé in una tecnica terapeutica utilizzata in psichiatria e prevede una somministrazione lenta e continua, per endovena, di particolari farmaci psicoattivi quali Pentotal e amital sodico. In queste condizioni, il paziente risponde alle domande dello psichiatra riferendo liberamente associazioni spontanee, immagini e ricordi. Durante una testimonianza, in simili circostanze sarebbe sicuramente più facile ottenere dichiarazioni corrispondenti al vero.

Infine, l’ipnosi consiste in un fenomeno psicosomatico che può essere causato tramite una suggestione dovuta ad un’immagine o un suono che il soggetto percepisce intensamente. Coinvolge sia la dimensione fisica che quella psicologica della persona e consente di influire sulla condizione psicofisica e sul comportamento di quest’ultima.

La ratio che sta dietro a questo scelta

Il legislatore, scegliendo di escludere questi strumenti da quelli utilizzabili all’interno del procedimento penale per la ricerca della verità, ha scelto di subordinare l’assoluta certezza della testimonianza alla libertà morale della persona umana. Di fronte quindi ad alcuni diritti fondamentali dell’uomo, come la libertà di autodeterminazione, la ricerca della verità storica, ovvero della ricostruzione esatta dei fatti, viene sacrificata e sostituita dalla ricerca della verità giudiziale: vero e proprio risultato del procedimento penale.

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Uno Stato moderno, infatti, non può essere disposto a perseguire la verità ad ogni costo, violando la tutela di alcuni diritti primari dell’individuo. Proprio sulla scia di tale pensiero la legge n 932 del 1969  identifica  l’interrogatorio non  più come una narrazione obbligatoria a titolo di verità cui è costretto il soggetto, ma come essenziale strumento di esercizio del diritto di difesa, proclamato dall’articolo 24 della Costituzione.

Autrice: Fernanda Panzar

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