Il mondo virtuale del XXI secolo porta con sé tanti vantaggi ma amplifica altrettante criticità: questo è il caso degli hate speech, o discorsi d’odio, ossia di quelle espressioni d’intolleranza rivolte soprattutto contro le minoranze attraverso la comunicazione online. Gli autori di questi commenti non sembrano consapevoli della gravità delle loro azioni: fino a dove si può spingere il loro diritto di libertà di espressione prima di diventare reato?
Articoli contraddittori o questione di interpretazione?
L’articolo 595, comma 1, del Codice penale, intitolato “Diffamazione”, prevede che “Chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032”. I commi successivi prevedono delle aggravanti se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, se l’offesa è recata permezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio.
Il successivo articolo 596 del Codice penale stabilisce che chiunque si sia reso colpevole del delitto di diffamazione “non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa”, ma in alcune situazioni la verità di quanto si afferma non è sempre irrilevante, perché essa diventa il presupposto della sussistenza della causa di giustificazione – o scriminante – dell’esercizio di un diritto, prevista dall’articolo 54 del codice penale, intitolato “Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere”, in base al quale “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità.”
A questo punto entra in gioco l’articolo 21 della Costituzione, in base al quale “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e in questa disposizione costituzionale èunanimemente riconosciuto il principio della libertà di manifestazione del pensiero, in cui viene fatto rientrare sia il diritto di cronaca, sia il diritto di critica, di cui la giurisprudenza ha individuato da tempo alcuni criteri che permettono di valutare se nel caso specifico un comportamento – teoricamente diffamatorio – è invece giustificato dall’esercizio del diritto di critica o del diritto di cronaca.
In particolare, ricorre la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica o del diritto di cronaca in presenza di tre requisiti quali la veridicità dei fatti, la continenza e l’interesse sociale alla conoscenza, ma, mentre il diritto di cronaca può essere invocato solo da chi appartiene alla categoria dei giornalisti, il diritto di critica può riguardare anche qualunque altro cittadino che,comunicando con più persone, afferma fatti che potrebbero offendere la reputazione altrui.
È interessante il percorso logico-giuridico che la Corte di Cassazione ha seguito per delineare la cornice entro la quale deve essere valutata la sussistenza della predetta scriminante, iniziando dalla precisazione che, in materia di diffamazione, il giudice di legittimità può conoscere e valutare l’offensività della frase che si assume lesiva dell’altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato.
Il tabù della reputazione
Con riguardo al bene giuridico tutelato dall’articolo 595 del Codice penale, la Corte di Cassazione ha poi rammentato che esso è individuato, secondo l’elaborazione giurisprudenziale,nell’onore di ciascuna persona; secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell’onore, ciò che viene tutelato attraverso l’incriminazione è l’opinione sociale del “valore” della persona offesa dal reato, distinguendosi la lesione della reputazione da quella dell’identità personale che, secondo la definizione di autorevole dottrina, corrisponde al diritto dell’individuo alla rappresentazione della propria personalità agli altri senza alterazioni e travisamenti. Tale interesse può essere violato anche attraverso rappresentazioni offensive dell’onore che però, al di fuori di tale evenienza, non ha autonoma rilevanza penale, integrando la lesione esclusivamente un illecito civile. L’evento del reato di diffamazione è costituito quindi dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino. Si tratta di un evento, non fisico, bensì psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte di terzi, dell’espressione offensiva.
I limiti della libera manifestazione del pensiero
La Corte di Cassazione ha proseguito considerando che il diritto di critica, rappresentando l’esternazione di un’opinione relativamente a una condotta ovvero a un’affermazione altrui, si inserisce nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’articolo 21 della Carta costituzionale e dall’articolo10 della Convenzione EDU. Proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, esso può essere evocato quale scriminante, ai sensi dell’articolo 51 del Codice penale, rispetto al reato di diffamazione, purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva.
In particolare, la nozione di “critica”, quale espressione della libera manifestazione del pensiero, oramai ammessa senza dubbio dall’elaborazione giurisprudenziale, rimanda non solo all’area dei rilievi problematici, ma, anche e soprattutto, a quella della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo anche con toni aspri e taglienti, non essendovi limiti astrattamente concepibili all’oggetto della libera manifestazione del pensiero, se non quelli specificamente indicati dal legislatore. I limiti sono rinvenibili, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall’articolo 2 dellaConstituzione, onde non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, né trasmodare nell’invettiva gratuita, salvo che l’offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico.
Inoltre, a differenza della cronaca, del resoconto, della mera denunzia, la critica si concretizza nella manifestazione di un’opinione (un giudizio valutativo). È vero che essa presuppone in ogni caso un fatto che sia assunto a oggetto o a spunto del discorso critico, ma il giudizio valutativo, in quanto tale, è diverso dal fatto da cui trae spunto e, a differenza di questo, non può pretendersi che sia “obiettivo” e neppure, in linea astratta, “vero” o “falso”. Diversamente opinando, si rischierebbe di sindacare la legittimità stessa del contenuto del pensiero, in palese contrasto con le garanzie costituzionali. La critica postula, insomma, fatti che la giustifichino e cioè, normalmente, un contenuto di veridicità limitato alla oggettiva esistenza dei dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse, ma non può pretendersi che si esaurisca in essi. In altri termini, come rimarca la giurisprudenza CEDU, la libertà di esprimere giudizi critici, cioè “giudizi di valore”, trova il solo, ma invalicabile, limite nell’esistenza di un “sufficiente riscontro fattuale”, ma, al fine di valutare la giustificazione di una dichiarazione contestata, è sempre necessario distinguere tra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore, perché, se la materialità dei fatti può essere provata, l’esattezza dei secondi non sempre si presta ad essere dimostrata. Ecco che la critica, a differenza della cronaca, del resoconto, della mera denunzia, concretizzandosi nella manifestazione di un’opinione meramente soggettiva (di un giudizio valutativo), non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva e asettica. Ciò in quanto il giudizio critico è necessariamente influenzato, e non potrebbe essere altrimenti, dal filtro personale con il quale viene percepito il fatto posto a suo fondamento; esso è, per sua natura, parziale, ideologicamente orientato e teso ad evidenziare proprio quegli aspetti o quelle concezioni del soggetto criticato che si reputano deplorevoli e che si intende stigmatizzare e censurare.
Cosa s’intende per “continenza”?
Quanto al requisito della continenza, giova rammentare che essa concerne un aspetto sostanziale e un profilo formale.
La continenza sostanziale, o “materiale”, attiene alla natura e alla latitudine dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione o al diritto-dovere di denunzia: essa si riferisce, dunque, alla quantità e alla selezione dell’informazione in funzione del tipo di resoconto e dell’utilità/bisogno sociale di esso.
La continenza formale attiene, invece, al modo con cui il racconto sul fatto è reso o il giudizio critico esternato, e cioè alla qualità della manifestazione: essa postula, quindi, una forma espositiva proporzionata, “corretta” in quanto non ingiustificatamente sovrabbondante al fine del concetto da esprimere. Questo significa che le modalità espressive attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero, con la parola o qualunque altro mezzo di diffusione, di rilevanza e tutela costituzionale, postulano una forma espositiva corretta della critica – e cioè astrattamente funzionale alla finalità di disapprovazione – e che non trasmodino nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione. Tuttavia, essa non è incompatibile con l’uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti. In realtà, secondo il consolidato canone ermeneutico,al fine di valutare il rispetto del canone della continenza, occorre contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio – temporale e dialettico nel quale sono state proferite, e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere. Con questo s’intende ribadire che la diversità dei contesti nei quali si svolge la critica, così come la differente responsabilità e natura della funzione dei soggetti ai quali la critica è rivolta, possono giustificare attacchi anche violenti, se proporzionati ai valori in gioco che si ritengono compromessi: sono, in definitiva, gli interessi in gioco che segnano la “misura” delle espressioni consentite. Compito del giudice è, dunque, di verificare se il giudizio negativo di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell’ambito di un contesto critico e funzionale all’argomentazione, così da escludere la invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario, con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti. Il contesto dialettico nel quale si realizza la condotta può, dunque, essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può mai scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale. Si è così affermato che esula dai limiti del diritto di critica l’accostamento della persona offesa a cose o concetti ritenuti ripugnanti, osceni, o disgustosi, considerata la centralità che i diritti della persona hanno nell’ordinamento costituzionale.
Autore: Carlotta Caromani