L’ordinamento penale italiano è permeato dalla volontà di perseguire e sanzionare fatti antigiuridici, colpevoli e punibili. Il fulcro del sistema è il reato, non il reo. Eppure, la pericolosità sociale e la ritenuta propensione di certi soggetti alla commissione di reati sono concetti che legittimano, sotto il benestare della Costituzione, l’applicazione di sanzioni penali anche in assenza di una condanna: questo articolo si propone di analizzare l’istituto delle misure di sicurezza personali, tanto invasive quanto risalenti nel nostro Codice penale.
Il retroterra storico-filosofico dell’istituto
Le misure di sicurezza costituiscono una particolare categoria di sanzioni penali, presenti nel nostro codice penale sin dal 1930, le cui origini sono risalenti nel tempo. Infatti, il fondamento filosofico-dottrinale di queste misure, come vedremo molto invasive, è da rintracciare nella c.d. Scuola positiva, una corrente sviluppatasi a cavallo tra il XIX e il XX secolo e che ravvisa le radici del fenomeno criminale nel concetto dell’ “uomo delinquente”: l’attacco di questo pensiero dottrinale è proprio al diritto penale “del fatto”, oggi non più in discussione e principio ispiratore dell’intera normativa penale, a favore invece del diritto penale che avversi i c.d. soggetti socialmente pericolosi.
La lotta alla criminalità, nella sostanza, dovrebbe rivolgersi non contro il reato, quanto contro il reo, a valle di una tipizzazione delle persone socialmente pericolose, e in un’ottica di assoluta prevenzione di condotte illecite, attuata tramite la previsione di sanzioni (pene o misure di sicurezza) forti e dissuasive.
Come sappiamo, questa corrente dottrinale non ha avuto la meglio nel nostro Paese, che ha deciso con saggezza di restare ancorato a dei pilastri ben noti: nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege; diritto penale del fatto; funzione rieducativa della pena; principio di colpevolezza. Tra gli istituti giuridici ancora oggi vigenti, però, la misura di sicurezza è quello che più resta imperniato sull’idea di pericolosità sociale, tanto delle persone quanto delle cose (abbiamo dunque misure personali e misure patrimoniali).
Le principali misure di sicurezza personali
In questo breve articolo analizzeremo soltanto le misure riferite alle persone, vale a dire le misure di sicurezza personali; queste si dividono in detentive (assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro, assegnazione a una casa di cura e custodia, ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, ricovero dei minori in un riformatorio giudiziario) e non detentive (libertà vigilata, divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province, divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche, espulsione dello straniero e allontanamento del cittadino di uno Stato membro dell’UE dal territorio delloStato).
Si ricordi da ultimo che, in seguito alla riforma legislativa avvenuta tra il 2011 e il 2015, gli ospedali psichiatrici giudiziari e le case di cura e custodia sono state abolite e sostituite dalle “residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (R.E.M.S.);così come la misura del ricovero dei minori in un riformatorio giudiziario, a norma del nuovo processo penale minorile vigente dal 1988, si esegue attraverso l’affidamento coattivo del minore ad una comunità educativa.
La disciplina generale delle misure di sicurezza personali
Il punto di partenza della nostra analisi è sicuramente l’articolo 202 c.p., il quale illustra, in due commi molto chiari e concisi, quelli che sono i presupposti per l’applicazione di qualsiasi misura di sicurezza personale: l’aver commesso un fatto previsto dalla legge come reato (alternativamente, e nei casi tassativamente previsti dalla legge penale, un fatto non preveduto come reato) e, cumulativamente, la pericolosità sociale del soggetto agente.
Con riguardo al reato, sappiamo che lo stesso può essere commesso da un soggetto imputabile, semimputabile o non imputabile. Quanto ai soggetti non imputabili, per i quali si discute circa la sussistenza e la configurazione del dolo, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il dolo che deve sorreggere la realizzazione del fatto tipico, per il quale si possa disporre di una misura ex art. 202 c.p., ha un struttura pienamente coincidente con quella del dolo dell’imputabile; di avviso contrario è invece una parte della dottrina, ritenendo incompatibile il dolo come previsto dalla legge (rappresentazione e volizione) con l’incapacità di intendere e di volere che caratterizza il soggetto non imputabile.
Il “quasi reato”, espressione coniata dalla dottrina per indicare un fatto non preveduto dalla legge come reato, coincide con determinate condotte quali, a titolo esemplificativo, il c.d. reato impossibile ex art. 49 c.p. e l’accordo per commettere un delitto che poi non viene commesso. Gli autori di “quasi reati” all’evidenza non sono punibili (non nel senso che abbiano commesso un fatto antigiuridico e colpevole, ma non punibile per la presenza di una causa di non punibilità): la loro condotta non integra un reato in neanche uno dei suoi elementi costitutivi. Ciò non di meno, si tratta di persone socialmente pericolose, in quanto potenziali autori di futuri reati, e per questo assoggettabili ad una misura di sicurezza.
Quanto al secondo presupposto, la pericolosità sociale è definita dall’art. 203 co. 1 c.p.: trattasi, in sostanza, della concreta probabilità (non quantitativamente, ma qualitativamente riscontrabile) che il soggetto commetta in futuro nuovi reati, ovvero, nell’ipotesi di “quasi reato”, che commetta reati.
Mentre il vecchio art. 204 co. 2 c.p. prevedeva la possibilità che tale pericolosità sociale venisse presunta ex lege (ed alcune disposizioni lo facevano), la legge n. 663 del 10 ottobre 1986, abrogando la vecchia norma, ha stabilito con grande spirito garantista una nuova regola procedurale: il giudice deve sempre accertare in concreto la pericolosità sociale di un soggetto. Nel mondo delle misure di sicurezza, proprio per le loro peculiarità, non c’è più spazio per delle presunzioni del legislatore, che rischierebbero di diventare esse stesse pericolose.
Il giudice, e solo il giudice, nel suolo ruolo di organo terzo e imparziale, è chiamato a formulare un giudizio di pericolosità sociale, strutturato in due momenti: analisi della personalità del soggetto (caratteristiche attuali) e prognosi criminale(propensione alla commissione di reati come conseguenza della sua personalità). E i criteri guida in questo giudizio sono, sempre a norma dell’art. 203 del codice, tutte le circostanze indicate nell’art. 133 c.p.
Applicazione, esecuzione, durata e revoca
L’applicazione delle misure di sicurezza spetta, di regola, al giudice di cognizione, nella sentenza di condanna o di proscioglimento (eccezionalmente, in caso di patteggiamento ex art. 444 c.p.p.), secondo la legge vigente al tempo della loro applicazione. Quando diverse misure di sicurezza della stessa specie dovessero essere applicabili a più fatti di reato commessi, il giudice ne sceglierà una sola. Qualora le misure fossero invece di specie diversa, lo stesso giudice discrezionalmente potrà statuire se applicarne una o più d’una.
L’esecuzione delle misure è presidiata dal magistrato di sorveglianza, dotato di ampi poteri che di seguito vedremo. Quando la misura consegue ad una sentenza di condanna, e si aggiunge ad una pena detentiva, essa verrà eseguita dopo l’espiazione o l’eventuale estinzione della pena detentiva; nel caso invece di condanna ad una pena non detentiva, congiuntamente ad una misura di sicurezza, quest’ultima sarà eseguita a partire dalla definitività (passaggio in giudicato) della condanna. In caso di proscioglimento e contestuale applicazione di misura di sicurezza, questa è eseguita dal passaggio in giudicato della sentenza, salva l’applicazione provvisoria di alcune misure di cui all’art. 206 c.p. nelle more dei gradi di giudizio. Infine, l’estinzione della pena per una delle cause previste dalla legge preclude, di regola, sia l’applicazione sia l’esecuzione delle misure di sicurezza personali.
Ciascuna misura di sicurezza personale ha sempre una durata minima, prevista dal codice penale. Decorso tale periodo di durata minima, entra in gioco il magistrato di sorveglianza, che procede al riesame della pericolosità sociale precedentemente riscontrata dal giudice della cognizione. A valle di tale giudizio, il magistrato può revocare la misura di sicurezza qualora ritenga che la pericolosità non sia più sussistente; in caso contrario,fisserà un nuovo periodo di esecuzione, spirato il quale procederà ad un nuovo riesame. In ottica di favor verso il soggetto sottoposto a misure di sicurezza personali, l’art. 69 co. 4 ord. penit. attribuisce al magistrato di sorveglianza addirittura un potere di revoca anticipata, esercitabile cioè prima che sia decorso il termine minimo di esecuzione previsto alla legge. Possiamo notare quanta discrezionalità la legge abbia conferito al magistrato di sorveglianza, che diventa in fin dei conti arbitro assoluto e indiscusso del destino del soggetto sottoposto alla misura.
Quanto alla durata massima, in base al D.L. 31 marzo 2014, n. 52 le misure di sicurezza personali non sono più applicate a tempo indeterminato (come avveniva nel primissimo codice Rocco del 1930): la durata delle misure di sicurezza non può superare la durata massima della pena detentiva comminata per il reato commesso, eccetto che per i delitti puniti con l’ergastolo, nel qual caso il sopradetto limite massimo non trova applicazione.
Da ultimo, l’inosservanza della misura di sicurezza personale applicata dal giudice comporta per il soggetto delle ripercussioni di diverso tipo e previste dalla legge per la trasgressione di ciascuna misura (tendenzialmente trattasi della decorrenza ex novo di un periodo minimo di applicazione o la sostituzione con altra misura più grave).
Autore: Filippo Petracci