La vicenda di Enzo Tortora, eclatante e complessa, si contraddistinse per un forte legame fra processo giudiziario e processo mediatico. Il caso in questione può essere infatti osservato sotto un duplice punto di vista: quello di Tortora che ha dovuto, pur da innocente, sopportare lunghi anni di carcerazione preventiva, e quello dell’opinione pubblica, caratterizzata da una profonda spaccatura e a proposito della quale Leonardo Sciascia scrisse: “Il caso Tortora è esemplare: coloro che detestavano i programmi televisivi condotti da lui, desideravano fosse condannato; coloro che invece a quei programmi erano affezionati, lo volevano assolto.”
Prima dell’arresto
Dopo aver vinto un concorso Rai, Enzo Tortora ha lavorato per la cosiddetta ‘radiosquadre’, un programma che veniva registrato nelle piazze medioevali italiane. Tortora si presentava al pubblico radiofonico come giornalista e come uomo di spettacolo. Nel 1954, venne chiamato a co-condurre “Campanile d’oro”, un concorso musicale regionale. La conduzione di questo programma rappresentò per lui il debutto televisivo e, dopo le prime apparizioni, cominciò a ricevere lettere di ammiratori e richieste di interviste. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Tortora è stato un personaggio pubblico crossmediale.
Processo Tortora: l’indagine e l’arresto
Il 17 giugno 1983, alle 4:30 del mattino, i carabinieri bussarono alla porta di una stanza dell’Hotel Plaza, a Roma, in via del Corso, e arrestarono Enzo Tortora. Il giorno successivo all’arresto la notizia finì nelle prime pagine di tutti i quotidiani nazionali le immagini del suo arresto vennero trasmesse ovunque.
Tortora fu accusato di traffico di stupefacenti e associazione a delinquere di stampo camorristico. Le accuse contro di lui si basavano sui racconti di due pentiti, Pasquale Barra detto ‘o animale, e Giovanni Pandico chiamato ‘o pazzo. Tuttavia, niente di quello che dichiararono era corrispondente al vero e tali accuse segnarono l’inizio di un calvario giudiziario.
Assieme a Tortora vennero arrestati altre ottocento persone in quello che la stampa definì il “maxi blitz” contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
Durante l’anno degli arresti, stava procedendo la guerra tra i clan che fu caratterizzata da centinaia di omicidi. Tortora, dunque, fu coinvolto in un’operazione che ebbe un enorme risalto mediatico.
Perché i pentiti accusarono Tortora?
Alcuni pregiudicati pentiti, tra cui Giovanni Melluso, Giovanni Pandico e Pasquale Barra, al fine di ottenere benefici e sconti di pena, accusarono Enzo Tortora in quanto responsabile per lo spaccio di droga per conto della camorra nel mondo dello spettacolo. Infatti, la legge sui pentiti era stata varata l’anno prima, nel 1982, ed era in fase di sperimentazione, perciò i magistrati non sapevano bene come gestire le dichiarazioni accusatorie di tali personaggi e questo ebbe ripercussioni negative sul caso Tortora.
Seguirono, nel tempo, ulteriori accuse: diversi detenuti raccontavano di quando e dove avevano visto Tortora spacciare droga negli studi televisivi. Mancava il segreto: ogni pentito conosceva il contenuto delle dichiarazioni già rese dagli altri, e poteva regolarsi di conseguenza nel rilasciare le proprie. Alla fine, l’accusa contava su 19 testimonianze di vario genere e di dubbia qualità, sia per le persone da cui provenivano, sia per il loro contenuto.
Processo Tortora: quali prove oggettive?
Oltre alle accuse dei pentiti, gli elementi “oggettivi” si fondavano unicamente su un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista, Giuseppe Puca, dove era stato scritto a penna il nome di Tortora, con a fianco un numero di telefono. Il nome, ad esito di una perizia calligrafica, risultò non essere quello del presentatore, bensì quello di un tale Tortòna. Nemmeno il recapito telefonico risultò appartenere al presentatore, ma ad un venditore di bibite del casertano.
Nel caso Tortora non furono svolti controlli bancari e neppure intercettazioni telefoniche.
Un’altra prova valorizzata dalla pubblica accusa fu quella dei “centrini”, provenienti dal carcere in cui era detenuto lo stesso Pandico e che erano stati indirizzati al presentatore perché venissero venduti all’asta nel programma Portobello. La redazione di Portobello, oberata di materiale inviatole da tutta Italia, aveva smarrito i centrini ed Enzo Tortora scrisse una lettera di scuse a Pandico, mandandogli un assegno di rimborso del valore di 800 000 lire da parte dell’ufficio legale della Rai. Pandico non si accontentò di una tale risposta e iniziò a spedire lettere minacciose a Tortora, fino a rasentare l’estorsione, la cui corrispondenza fu ritenuta prova dei contatti instaurati da Tortora col mondo carcerario.
La carcerazione preventiva e il processo
Enzo Tortora fu detenuto per sette mesi in regime di carcerazione preventiva: quella che oggi viene chiamata custodia cautelare in carcere e riguarda gli imputati non condannati, ossia i detenuti in attesa di giudizio. Poi, furono disposti gli arresti domiciliari e dopo altri sei mesi il presentatore venne rimesso in libertà. Il processo iniziò nel 1985 e, dopo 67 udienze, arrivò la sentenza di condanna: 10 anni di reclusione. Nel frattempo, Tortora era stato eletto deputato al Parlamento europeo ma, dopo la condanna in primo grado, si dimise, confermando la rinuncia all’immunità parlamentare, e fu sottoposto nuovamente agli arresti domiciliari nella sua abitazione. Nella fase d’appello però la situazione cambiò: le dichiarazioni dei pentiti furono ritenute inattendibili ed emersero le vistose incongruenze. Tortora venne assolto con formula piena. I pentiti, che avevano formulato le false accuse contro di lui, furono incriminati e processati per calunnia. Il 17 giugno 1987, 4 anni dopo il suo arresto, la Cassazione confermò la sentenza assolutoria.
L’epilogo e la morte
Dopo l’assoluzione, Tortora poté tornare in televisione e riprendere la trasmissione del programma che aveva interrotto, “Portobello”. Apparve tuttavia indebolito e segnato dalla malattia e morì un anno dopo di cancro, all’età di 59 anni. Dopo la sua morte, la televisione mandò in onda le immagini di Tortora ammanettato. La stampa dell’epoca e l’opinione pubblica si divisero tra colpevolisti e innocentisti.Lo scrittore Leonardo Sciascia scrisse che tale spaccatura si basava sulla simpatia e antipatia verso il personaggio famoso. Così – affermò – «chi odiava i suoi programmi televisivi voleva che fosse condannato; quelli che invece erano affezionati a lui e alle sue trasmissioni desideravano la sua assoluzione».
Gli errori giudiziari nel caso Tortora
Le decisioni giudiziarie errate furono prese dai magistrati inquirenti della Procura di Napoli e da quelli giudicanti del Tribunale della stessa città. In veste di professionisti del diritto, questi avrebbero dovuto interpretare in modo diverso le prove a carico dell’imputato, ma furono restii dall’ammettere i propri errori.
Un anno dopo la morte di Tortora, fu introdotta la legge sulla “Responsabilità civile dei magistrati”. I magistrati che inquisirono e condannarono Tortora non subirono alcuna ripercussione negativa per gli errori commessi nella valutazione delle prove.
Tra tutti i pentiti che accusarono Tortora, l’unico che chiese scusa fu Giovanni Melluso.
Un anno dopo la morte del presentatore, il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati disse che gli errori giudiziari commessi rappresentavano una conseguenza negativa del funzionamento del sistema processuale all’epoca vigente (basato sul rito inquisitorio e sbilanciato a favore dell’accusa). Quest’ultimo sarebbe stato superato dal nuovo Codice di procedura penale, che entrò in vigore nel 1989, ed era basato sul contraddittorio alla pari tra accusa e difesa.
Autore: Federica Borgini