La Corte di Cassazione, con sentenza definitiva nel processo n. 39038/2022 emessa dalla Sesta sezione penale, ha confermato le assoluzioni nel processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia” ai politici e Carabinieri che erano stati coinvolti per anni in uno dei casi giudiziari più noti sui rapporti fra Stato italiano e criminalità organizzata.
Il contesto storico della trattativa Stato-mafia
La “trattativa Stato-mafia” è la tesi secondo cui vi sarebbe stata, all’inizio degli anni Novanta, precisamente nel contesto delle bombe del 1992-1993, una negoziazione svolta a più riprese tra esponenti delle istituzioni italiane e rappresentanti dell’associazione mafiosa Cosa Nostra, allo scopo di porre fine alle stragi, garantendo in cambio un atteggiamento più morbido nei confronti della mafia stessa e dei boss in carcere.
L’inizio della trattativa, secondo coloro che ne sostengono l’esistenza, sarebbe riconducibile all’omicidio di Salvo Lima, referente politico di Cosa Nostra, assassinato dall’organizzazione per non averne difeso gli interessi nel corso del maxiprocesso di Palermo, conclusosi il 30 gennaio 1992 con la condanna definitiva di centinaia di mafiosi.
Le stragi erano frequenti in quegli anni, e avevano portato alla morte, tra gli altri, dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i più attivi nella lotta alla mafia, ma anche di diversi civili negli attentati a Milano, Firenze e Roma.
Il processo
In seguito alle testimonianze raccolte da numerosi collaboratori di giustizia, il 27 maggio 2013 venne istruito il processo sulla “trattativa Stato-mafia”. Il 20 aprile 2018 venne pronunciata sentenza di condanna a dodici anni di carcere nei confronti di Mario Mori, Antonio Subranni, Marcello Dell’Utri, Antonino Cinà, ad otto anni Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino, a ventotto anni Leoluca Bagarella; venne inoltre assolto l’ex Ministro dell’Interno Nicola Mancino.
Il 29 aprile 2019 iniziò il processo d’appello a Palermo, nel contesto del quale la Procura generale di Palermo chiese alla Corte d’assise d’appello di confermare le condanne inflitte in primo grado a boss, ex ufficiali dei carabinieri e politici imputati di minaccia ad un Corpo politico ex art. 338 c.p.
L’articolo 338 del Codice penale recita al primo comma: “Chiunque usa violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario , ai singoli componenti o ad una rappresentanza di esso, o ad una qualsiasi pubblica Autorità costituita in collegio o ai suoi singoli componenti, per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, o per turbarne comunque l’attività, è punito con la reclusione da uno a sette anni.”
Il 23 settembre 2021 la Corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto gli ex ufficiali Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno perché “il fatto non costituisce reato” e l’ex senatore Marcello Dell’Utri “per non aver commesso il fatto“. La Corte ha inoltre dichiarato come prescritte le accuse contro Giovanni Brusca, ha ridotto a ventisette anni la pena al boss Leoluca Bagarella ed ha confermato la condanna a dodici anni del capomafia Antonino Cinà.
La fine della storia giudiziaria
Per anni alcuni giornali e membri della magistratura si sono detti certi che i tribunali avrebbero provato l’esistenza della trattativa, e che i responsabili avrebbero ricevuto pesanti condanne.
La Cassazione ha invece confermato le assoluzioni decise nel 2021 nel processo di appello per l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ex carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno.
La Corte ha fatto anche un passo oltre, cambiando la formula dell’assoluzione: mentre in appello i carabinieri erano stati assolti perché le loro azioni «non costituivano reato», ora sono stati completamente scagionati, nel senso che la Cassazione ha stabilito che «non hanno commesso il fatto».
In appello si era cioè ritenuto vero che i carabinieri avessero dialogato con la mafia, ma che lo avessero fatto solo per ragioni investigative e senza esercitare pressioni su politici e ministri affinché cedettero alle richieste mafiose: la decisione della Cassazione ha invece escluso del tutto che questo dialogo sia avvenuto. In appello la formula di “non aver commesso il fatto” era stata usata soltanto per Dell’Utri.
La sentenza d’appello e la conferma della Cassazione hanno quindi contraddetto le conclusioni dell’indagine dei pubblici ministeri Nino di Matteo e Antonio Ingroia, e il successivo verdetto di primo grado che arrivò nell’aprile del 2018.
È però importante notare come Calogero Mannino, ex ministro del Mezzogiorno, era stato assolto prima della sentenza di primo grado col rito abbreviato il 4 novembre 2015, sentenza poi confermata in appello e dalla Cassazione.
Secondo i pubblici ministeri che avevano avviato l’indagine sarebbe stato proprio Mannino, per paura di essere ucciso, a intavolare la trattativa. La sua assoluzione definitiva decisa dalla Cassazione nel luglio 2019 aveva però tolto all’accusa un primo tassello fondamentale: se veniva giudicato non colpevole Mannino, l’intero impianto accusatorio sarebbe stato compromesso.
L’unico politico rimasto nel processo non era quindi un rappresentante della prima Repubblica, attivo cioè negli anni in cui la trattativa si sarebbe inizialmente sviluppata, ma un esponente della seconda, Marcello Dell’Utri, che fu inizialmente accusato di essere coinvolto in una seconda fase della trattativa, quella del 1994, accuse da cui poi anche lui è stato del tutto assolto.
Sono invece finite in prescrizione le accuse verso i boss mafiosi che erano ancora coinvolti nel processo, il cognato di Totò Riina, Leoluca Bagarella, e il medico Antonio Cinà, anche lui considerato vicino a Riina.
Autore: Sara Ballini