18 December 2025 – Thursday
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La “tagliola” alle intercettazioni: un aggiustamento davvero necessario?

A cura di Francesco Centemeri

Più pene, più fattispecie di reato, meno strumenti per accertarle.

In queste poche parole è sintetizzabile quello che autorevole dottrina ha definito il “populismo penale”[1], cifra stilistica dei governanti dei giorni nostri. Un’espressione che descrive perfettamente la tendenza della maggioranza di governo a utilizzare il diritto penale come strumento di ricerca del consenso[2]. Uno strumento a portata di mano e a costo zero, in quanto, si sa, inserire nuove fattispecie di reato – dentro o fuori il codice penale – non grava sul bilancio dello Stato. Al massimo, grava sull’equilibrio psicologico di (più di) qualche addetto ai lavori, che non ha risparmiato critiche a questa schizofrenia normativa che nulla ha a che vedere con la delicatezza con cui bisognerebbe maneggiare la materia penale.

Quasi come in un’alluvione, sono state partorite fattispecie caratterizzate da disvalori meramente simbolici, se non ideologici e, in alcuni casi, da una portata pratica che i matematici definirebbero “tendente allo zero”. Così, evidentemente carico di ideologia è il nuovo reato che punisce chi impedisce la circolazione su una strada usando il proprio corpo; evidentemente superfluo è il nuovo reato di omicidio nautico.

Sotto la promessa di una maggiore efficacia preventiva, sono, poi, state aumentate le sanzioni per una serie di reati. Nei (soli) primi due anni di governo, si sono contati incrementi di pena per complessivi 417 anni di carcere[3].

Distribuito un nuovo mazzo di carte ai pubblici ministeri, che si sono trovati in mano nuovi reati da perseguire, il governo ha, però, subito provveduto a eliminare i jolly dal mazzo. Fuor di metafora, ha provveduto a depotenziare quel mezzo di ricerca della prova che, in questa fase storica più che in altre, ha assunto una assoluta centralità nella fase delle indagini preliminari: lo strumento delle intercettazioni.

Poche settimane fa, infatti, la Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge Zanettin, recante “modifiche alla disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione”, composto da un unico articolo, che va a modificare l’art. 267 c.p.p.

Una prima notazione. Non vengono modificati i presupposti per accedere allo strumento, che restano, all’interno delle fattispecie per cui lo strumento è astrattamente utilizzabile, i gravi indizi di reato e l’assoluta indispensabilità delle intercettazioni per la prosecuzione delle indagini. Nemmeno viene modificato il procedimento di adozione del mezzo, che principia con una richiesta del pubblico ministero e passa per un successivo decreto del GIP, salvo il caso in cui, potendo il ritardo arrecare pregiudizio alle indagini, il PM disponga da sé l’intercettazione con decreto motivato d’urgenza, che dovrà essere comunicato al GIP e convalidato da questo[4].

Rimane tale e quale anche il limite temporale di durata delle intercettazioni, pari a 15 giorni, che, però, fino a poco fa, erano prorogabili, appunto di 15 giorni in 15 giorni, senza ulteriori “tetti” massimi. O, meglio, il “tetto” massimo corrispondeva alla fine della fase procedimentale delle indagini preliminari, pari a 18 o, per alcuni più gravi delitti, a 24 mesi, decorsi i quali non sarebbero più potute intervenire proroghe delle operazioni di intercettazione.

Si trattava – è chiaro – di un “tetto” implicito di durata massima. La riforma interviene introducendo, invece, un limite esplicito pari a complessivi 45 giorni: il che significa che, dopo l’inizio delle operazioni, potranno essere emanati solo due decreti di proroga, dopo i quali nessun’altra intercettazione potrà essere effettuata, salva l’ipotesi di “assoluta indispensabilità delle operazioni”, che dev’essere “giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”.

Questo regime – sospiro di sollievo – non varrà per alcuni specifici reati, tra cui quelli di criminalità organizzata, per cui esiste già un regime speciale di intercettazione (art. 13 comma 2 D.L. 152/1991), con una durata di 40 giorni, prorogabili per periodi successivi di 20 giorni. Infatti, non è, qui, replicato lo stesso meccanismo previsto per il regime “ordinario”, che, altrimenti, avrebbe posto la parola fine alle operazioni di intercettazioni dopo 80 giorni (i 40 giorni iniziali più le due proroghe di 20 giorni).

Le belle notizie, tuttavia, finiscono qui. Come è stato evidenziato dai primi commentatori[5], la nuova disciplina interesserà procedimenti per reati come l’omicidio, i reati in tema di stupefacenti, lo stalking, i maltrattamenti in famiglia, i reati contro la pubblica amministrazione.

Si badi, l’elencazione di questi reati non è casuale, né si basa sul maggiore o minore disvalore di cui sono portatrici tali condotte rispetto ad altre, ma deriva dal fatto che molti dei reati citati sono oggigiorno accertabili soprattutto in virtù delle intercettazioni telefoniche e telematiche. Ciò è del tutto evidente per lo stalking, ma dovrebbe esserlo anche per i reati contro la pubblica amministrazione: avete mai visto il corruttore accordarsi e trasferire la tangente al corrotto in pubblico? La corruzione, per definizione, si fa di nascosto: nel più dei casi, non essendoci testimoni, le intercettazioni sono l’unico strumento per reperire elementi a carico dell’accusato. Lo abbiamo visto, di recente, nel caso che ha coinvolto l’ex Presidente della Regione Liguria.

Peraltro, è stata la stessa maggioranza a rendersi conto della pericolosità della disciplina rispetto ad alcune ipotesi di reato: subito dopo l’approvazione della legge, è stato votato un ordine del giorno che impegna il Governo ad adottare le opportune iniziative normative al fine di estendere ad alcuni delitti (violenza sessuale, stalking, revenge porn, etc.) il regime speciale che abbiamo visto per i reati di criminalità organizzata.

Varie sono state le reazioni alla novella legislativa. Chi esulta è, senz’altro, la maggioranza di governo, unitamente a parte dell’opposizione – Italia Viva – che ha votato il provvedimento, fortemente sponsorizzato dal ministro della giustizia Carlo Nordio, lo stesso (o forse è un omonimo?) che, quando era pubblico ministero, aveva fatto effettuare intercettazioni per un totale di 300 mila ore per una sola inchiesta, quella relativa agli appalti del Mose di Venezia.

Molto dura, invece, è stata la reazione dell’Associazione nazionale magistrati, per cui la nuova disciplina determina “il rischio di creare ulteriori sacche di impunità” e riflette una sorta di rinuncia dello Stato “ad acquisire elementi che possono essere indispensabili per il contrasto ai reati contro soggetti vulnerabili e ai reati contro la pubblica amministrazione”.

Severe critiche sono giunte anche da stimata dottrina, in primis da Gian Luigi Gatta, professore ordinario di Diritto penale all’Università statale di Milano e consulente dell’ex ministra Marta Cartabia, che ha palesato dubbi sul piano della coerenza sistematica e della ragionevolezza della disposizione, financo prospettandone l’illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 11 e 117.1 Cost., a causa dell’inadempimento degli obblighi sovranazionali relativi agli strumenti investigativi e all’efficacia dell’azione repressiva, largamente depotenziata dalla riforma in commento.

In definitiva, chi scrive non mette in dubbio che le intercettazioni – soprattutto quelle eseguite tramite l’uso di captatore informatico – rappresentino uno strumento assai penetrante nella privacy degli individui. Un uso indiscriminato di tale mezzo di ricerca della prova, sicuramente, mal si concilierebbe con le nostre garanzie costituzionali e, più in generale, con il modello di stampo accusatorio a cui, ormai da più di tre decenni, si è deciso di aderire.

Tuttavia, l’attuale sistema già pone significativi vincoli alle intercettazioni: lo abbiamo già visto parlando dei presupposti e del procedimento, ma merita ricordare anche che eventuali operazioni effettuate al di fuori dei limiti temporali sono sanzionate con l’inutilizzabilità. Né sarebbe sensato argomentare nel senso che, nella prassi, in alcuni casi, si sono verificate delle violazioni e degli abusi, che devono essere sanzionati con le norme che già esistono.

Orbene, il garantismo, valore irrinunciabile, non può essere confuso con il lassismo, che sembrerebbe trasparire dalla sostanziale rinuncia ad avvalersi di un così pregnante mezzo di ricerca della prova. A maggior ragione se, come avverte qualche pubblico ministero, i primi periodi di intercettazioni sono utilizzati dagli inquirenti più che altro per comprendere le abitudini telefoniche dell’intercettato. E, soprattutto, a tacere dell’eventuale uso strumentale della norma da parte dei soggetti eventualmente destinatari delle intercettazioni. 


[1] V., per tutti, BARTOLI in Sistema Penale, “Sulle recenti riforme in ambito penale tra populismo, garantismo e costituzionalismo”, 2024

[2] FIANDACA in Sistema Penale, “La bulimia punitiva aumenterà il consenso, ma non serve a niente”, 2025

[3] https://www.ilfoglio.it/giustizia/2024/10/21/news/417-anni-di-carcere-la-sbornia-giustizialista-del-governo-meloni-7070710/

[4] Per una più ampia ricostruzione dell’istituto, cfr. TONINI, “Manuale di procedura penale”, pp. 418ss., 2024

[5] GATTA in Sistema Penale, “Durata massima delle intercettazioni (45 giorni). Note a caldo sulla legge Zanettin”, 2025

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