Splendido e insieme provocante, il nudo ha suscitato l’interesse di numerosi esperti d’arte: tra questi, John Berger ha connesso alla tradizione figurativa una riflessione di natura sociale. Ma è legittimo interpretare un quadro da una prospettiva antropologica? E ancora: è possibile scomporre o sintetizzare l’espressione artistica in maniera univoca?
Il nudo è un soggetto ricorrente nell’arte figurativa occidentale. Se l’affermazione del motivo artistico deriva, tra le altre, da un’esigenza dell’arte stessa, cioè lo studio attento della figura umana per la rappresentazione, la nascita di questo tema è probabilmente scaturita da bisogno primitivo: attraverso la trasposizione della sua immagine, l’uomo ha indagato sé stesso, non solo nella sua fisicità, ma in quanto membro di una società, come figlio di valori comuni. Le veneri steatopigie, statuette di piccole dimensioni risalenti all’età paleolitica, sono rotonde, floride, grasse; in quelle forme femminili così accentuate è condensata tutta la venerazione della comunità del tempo per la prosperità. Le imponenti statue degli eroi della Grecia classica, invece, sono una sintesi eloquente dell’ideale di καλός κἀγαθός (kalòs kagathòs), la perfetta corrispondenza di limpidezza morale e perfezione fisica, pilastro del sistema valoriale ellenistico. Osservazioni di natura epistemologica e antropologica, però, non sono sufficienti ad esplorare il nudo, il quale ha avuto risonanza soprattutto come fenomeno artistico; per riflettere sul nudo in quanto filone dell’arte, è necessario integrare nell’analisi la netta separazione che, nel periodo Rinascimentale, si è interposta tra due declinazioni dello stesso tema: il nudo maschile e il nudo femminile.
In “Ways of seeing”, a proposito del nudo femminile, John Berger, critico d’arte britannico del ventesimo secolo, sostiene che “lo spettatore ideale è sempre considerato uomo e l’immagine della donna è modellata per compiacerlo”. La sua tesi prende le mosse da uno studio di tipo sociale: mentre l’uomo vive indipendente, intero e completo, la donna è divisa tra sé stessa e l’immagine di sé stessa, tra la sua esistenza e l’osservazione continua che subisce dalla controparte virile; l’unica strategia di difesa è incorporare l’apparenza alla propria essenza, interiorizzare il costante sguardo maschile in modo da comportarsi in maniera sempre impeccabile. Se l’uomo è unicamente soggetto, dunque, la donna diventa oggetto e insieme soggetto (“gli uomini agiscono e le donne appaiono”). Secondo Berger, questa dicotomia, che diventa quindi ontologica, si riflette nella rappresentazione artistica del corpo femminile, il quale, essendo espropriato di una delle semisfere del binomio, il soggetto, diviene solo oggetto, elemento di contemplazione. E qual è il fine di questa contemplazione? L’eccitazione sessuale dell’uomo: “questo quadro è stato creato per rivolgersi alla sessualità di lui. Non ha niente a che fare con la sessualità di lei”. Se i personaggi maschili all’interno di un dipinto esercitano un ruolo attivo nella scena e su chi guarda, le donne si stendono languide e ammiccano all’osservatore, ignare di chi lui sia, prive di volontà, attendendo frementi che lui sposti su di loro la propria attenzione; è lo spettatore, in questo caso, che ha potere su di loro, e che riveste dunque il ruolo, secondo la terminologia di Berger, di “spettatore-possessore”. A prova di questa teoria, l’autore suggerisce di mettere in atto una dimostrazione pratica: “Se avete dubbi che sia così, provate a fare il seguente esperimento. Scegliete da questo libro l’immagine di un nudo originale. Trasformate la donna in uomo. […] Quindi, notate la violenza che la trasformazione apporta. Non all’immagine in sé, ma nella mente di un potenziale osservatore”.
Ma davvero le donne dei grandi nudi si riducono a proiezioni senz’anima del desiderio maschile su tela, a involucri di carne calda svuotati di personalità e sentimento? Prendiamo come esempio la quintessenza del nudo, la “Venere di Urbino” di Tiziano, dipinta nel 1538. In una stanza sontuosa fiocamente illuminata, la protagonista, placida e indisturbata, giace mollemente su un letto disfatto; la mano sinistra, artificiosamente pudica, copre l’inguine con delicatezza; la destra regge svogliatamente un mazzo di rose rosse. Scompare, nel dipinto, ogni tentativo botticelliano di avvicinarsi alla bellezza divina: Venere è una donna vera, e sono la rotondità rosea e sana delle sue forme, la morbidezza dorata del corpo, la posa assonnata e insieme sensuale a donare alla figura il respiro e l’anima. Tutto, nel quadro, concorre a renderla meravigliosa: la luce, il colore, la prospettiva. È la regina indiscussa; chi, al primo impatto, nota il cagnolino, la bambina, il cassone, quando vede davanti a sé una dea? Venere, tuttavia, non respira soltanto; Venere ci parla, ci coinvolge, e a farlo è il suo sguardo. Gli occhi della donna si rivolgono sfrontatamente allo spettatore, autoritari, e lo chiamano a sé; la protagonista, dopo aver stregato chi la osserva, gli ordina sottovoce: “Guardami, tu, quanto sono bella!”. Nel suo viso non c’è ruga che esprima bisogno, incompletezza, avidità; la sua espressione, distesa e serena, emana sicurezza, quasi fierezza. Venere è vanitosa: non le interessa se lo spettatore gode, vuole essere guardata per compiacersi del suo fascino. Sa di essere bella, e la sua bellezza si risolve in lei stessa; la protagonista sceglie di essere oggetto e, in questo modo, diventa anche soggetto.
La “Venere di Urbino”, archetipo eterno di beltà, ha rappresentato per anni un modello imprescindibile: sulle lenzuola stropicciate dei dipinti di nudo, per lungo tempo, si sono adagiate solo donne aggraziate e senza difetto; dee, appunto. È stata la corrente naturalistica, che ha sostituito alla rappresentazione dell’ideale quella del reale, a stravolgere tale approccio. Gustave Courbet, pittore poliedrico e portatore di scandali, ha svolto un ruolo fondamentale nell’emancipazione del nudo femminile dalla perfezione alla naturalezza: “Femme nue couchée”, realizzato nel 1862, ne è un esempio lampante. Irradiata dalla luce dell’aurora, filtrata pigramente da un’ampia finestra, la protagonista del quadro, che non divide il ruolo con nessun altro elemento, è sdraiata su un ammasso disordinato di coperte porpora. Le sue curve sono piene, burrose; la peluria non viene nascosta, anzi, emerge; la sua spontaneità molle, lontana dall’eleganza di una posa, esala tenerezza, calore. L’onestà oscena che trasuda l’immagine scocca verso l’osservatore una verità disturbante e, allo stesso tempo, lo avvolge in una sensualità impetuosa. La ragazza, forse reduce da un’intensa notte di passione, come suggerisce l’accalcamento caotico dei tessuti, dorme; non si accorge di essere guardata, tantomeno di essere il soggetto di un quadro. E, se l’intrusione in una scena così intima, da una parte, può aumentare l’eccitazione di chi osserva, dall’altra esclude definitivamente lo spettatore dal quadro; il pittore ha rubato un momento di vita alla ragazza, una vita che è solo sua; l’osservatore può solo sbirciare. La protagonista, abbandonata nel sonno, esiste solo per sé stessa: lei è soggetto, e basta.
Questo non significa che il nudo femminile non può, non deve o non dovrebbe svegliare pulsioni di natura sessuale: il nudo è tensione, ma anche dolcezza, armonia, inquietudine, turbamento; il nudo è un’opera d’arte e, come tale, genera un flusso di emozioni così variegato e potente da non poter essere virato verso una direzione unica. Per questo, non si può pensare che gli autori subordinino il fine artistico del quadro che stanno dipingendo alla sollecitazione della pupilla erotica dell’uomo; né che ai personaggi femminili venga strappato quello spirito d’iniziativa che arricchisce un dipinto di vividezza e comunicatività. E poi, perché il ruolo di provocatrice deve appartenere solo alla donna? Chi ha detto che un uomo non può sdraiarsi su un triclinio? “Ma come” –interverrebbe Berger – “ve l’ho detto io! Provate a ribaltare i ruoli, vedrete che stonatura che ne risulterà!” E va bene, ribaltiamoli: nel 1981, la rivista statunitense “Rolling Stones” pubblica in copertina uno scatto di Annie Leibovitz che vede John Lennon e Yoko Ono stesi a terra, avvinghiati; il cantante è nudo, in posizione fetale, e abbraccia e bacia teneramente la moglie, assaporandone famelicamente l’essenza; Yoko, invece, con tutti i vestiti addosso, gode rigidamente delle carezze del suo uomo fragile, senza ricambiarle, ponendosi in una posizione di superiorità; ed è forse, questa, un’immagine violenta, forzata? Al contrario; la foto cattura e restituisce l’intensità di quell’amore. Relegare l’uomo alla potenza, all’autorità, alla forza, e confinare la donna al languore, alla delicatezza, alla sensualità, è forse un po’ bigotto, o meglio, limitante; giacché, come l’arte, la natura umana è così complessa che nemmeno la categoria basilare, quella del genere, può essere incapsulata in una definizione precisa.
Currently a first-year student in BEMACC, I grew up on the pages of the great Classics and the Italian songs of the Seventies: I look at the present through the eyes of a person who is still wandering into those timeless dimensions. I am deeply in love with Fëdor Dostoevskij and Fabrizio De André.