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Arts & Culture

Il giorno che mi ha cambiato la vita 

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Una sera di qualche mese fa, stavo girovagando distrattamente tra i canali televisivi. Le reti principali non davano nulla di interessante, quindi passai a scorrere quelle secondarie. Delusa dalla banalità dei programmi proposti, mi decisi a premere il tasto off, quando mia madre, seduta vicino a me sul divano, mi chiese di soffermarmi su un canale di cui adesso non ricordo nemmeno il nome. Dopo aver osservato qualche scena del film trasmesso, mi disse che si ricordava di averlo già visto: parlava di una storia bellissima, e avrebbe voluto rivederla ancora insieme a me. Senza alcuna aspettativa, mi posi di fronte a quello che all’inizio sembrava un racconto come tanti: piano piano, la narrazione prese forma, e mi ritrovai incapace di distogliere lo sguardo dallo schermo. Terminata la visione, dopo che quelle immagini avevano penetrato la mia mente, non riuscii a chiudere occhio per tutta la notte. 

Fiore del Deserto” racconta la storia di un’immigrata africana, Waris Dirie, che, fuggita dalla sua famiglia a 13 anni, vola clandestinamente a Londra nella speranza di una nuova vita. Assunta come donna di servizio all’interno dell’Ambasciata somala, la bambina passa i primi anni della fuga chiusa nell’edificio, privata di ogni possibilità di apprendere la lingua inglese. Dopo la disgregazione del governo somalo, decisa a non tornare in Africa insieme ai membri dell’Ambasciata, Waris, recidendo ogni residuo legame con la sua terra, si insinua di nascosto nella giungla londinese: qui, nonostante il fragore cittadino e la sua totale inesperienza, riesce a stringere un’amicizia con un’aspirante ballerina e a trovare lavoro come sguattera al McDonald’s. Ed è proprio mentre sparecchia i tavolini di un fast food che un grande fotografo di moda, abbagliato dalla sua bellezza pura e selvaggia, insiste per realizzare su di lei una serie di scatti. 

L’incontro spalanca a Waris le porte di una brillante carriera da supermodella. Nonostante la ragazza sia estranea alle dinamiche del mondo della moda, la sua grazia innata e il suo fisico slanciato si rivelano presto segnali di un potenziale immenso, tanto da farle conquistare rapidamente le sfilate più ambite del settore: Waris si sente come teletrasportata dalle steppe dell’Africa alle passerelle di New York. In quest’ottica, “Fiore del Deserto” sembra quasi presentarsi come la fiaba di una moderna Cenerentola, la cui forza di volontà viene infine premiata da un’insolita fata turchina, il fotografo, con una vita da sogno. Tuttavia, già dalle prime scene del film, la visione sfavillante del futuro da top model viene incrinata da reminiscenze cupe, deturpanti. L’inebriante grigiore londinese si alterna insistentemente all’ocra bruciato della natura africana, mentre il suono confuso delle strade trafficate viene spesso dissolto dal silenzio del deserto. Sul set, prima di ogni scatto, le truccatrici devono mascherare le cicatrici che straziano il corpo perfetto di Waris, che però non sbiadiscono: dietro al sorriso incredulo della modella si ha sempre l’impressione di scorgere gli occhi di una bambina triste. Waris vive la sua favola come un’oscillazione nervosa tra le opportunità del presente e le oscurità del passato: un’alternanza che, alla fine del film, la ragazza sceglie di condensare verso una direzione precisa.  

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All’apice della sua carriera, Waris partecipa ad un’importante intervista. La giornalista, pregustando l’articolo sulla miracolosa ascesa dell’immigrata clandestina, le chiede affannosamente di raccontare ancora una volta dell’incontro che le ha rivoluzionato la vita. Ma Waris non si sente più rappresentata da quella narrativa. “Se vuole, le dirò del giorno che mi ha cambiato la vita, ma non è quello che si aspetta lei”, risponde, fissando con durezza l’espressione sbigottita dell’altra donna. “Il giorno che mi ha cambiato la vita l’ho vissuto a tre anni, quando mi è stata praticata l’infibulazione”.  

Waris viene da una famiglia nomade di dodici fratelli. All’età di tre anni, in mezzo al deserto, una “tagliatrice” le mutila, secondo la tradizione, i genitali: clitoride, piccole e grandi labbra vengono recisi, e sul taglio, come garanzia di verginità, viene applicata una cucitura così stretta che l’apertura lasciata per urinare ha un diametro pari a quello della punta di uno spillo. A tredici anni, Waris viene promessa come quarta moglie ad un vecchio di sessanta. Quella notte stessa, la bambina sgattaiola via dalla tenda e comincia a correre per i terreni ruvidi e secchi della Somalia. Senza bussola, acqua o provviste, attraversa il deserto a piedi nudi, da sola. Riesce miracolosamente a raggiungere Mogadiscio, dove la nonna, convinta che la sua sopravvivenza sia stata voluta da Allah, le procura un passaporto e la spedisce a Londra a lavorare dalla zia, moglie dell’ambasciatore somalo. 

Nonostante abbia trovato il coraggio di sottrarsi ad un destino già stabilito, Waris non capisce ancora che il dolore lancinante di quel taglio a freddo, l’asfissia delle infezioni che vi sono proliferate, e le fitte che la assalgono ogni volta che va in bagno non sono necessari. Crede, invece, che sia proprio la cucitura a renderla pura, onesta, e rispettabile. Sarà Marylin, l’amica inglese, a farle capire che la verità del suo paese non è l’unica possibile: la ragazza, libera e spregiudicata, la accompagnerà verso un nuovo modo di conoscere sé stessa, dandole così la spinta di lasciare indietro un passato violento. Il lavoro da modella contraddice drasticamente i valori che Waris si è trascinata dietro dall’Africa: le scioglie i capelli, le getta via la tunica, la spoglia di fronte ad un obiettivo. Tra i riflettori della ribalta, la ragazza sembra recuperare quella leggerezza che le era stata negata: una musica spensierata la accompagna mentre, con Marylin, prova la camminata da sfoggiare in passerella. Tuttavia, come il trucco non cancella i segni incisi sulla sua pelle, Waris non può eliminare le sue origini dalla sua identità. La rimozione di parte dei genitali non le ha solo asportato dei pezzi di carne, ma una parte di sé stessa, lasciandole un vuoto che i lustrini della sua nuova vita non riescono a riempire. 

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Waris si rende conto che non sa più essere donna. In bilico tra un’Africa che la vuole immacolata, e un Occidente in cui le è stato tagliato via troppo per potersi ambientare, la modella sente il bisogno di lanciarsi in un’altra fuga, stavolta diretta alla scoperta di sé stessa. Ripercorrendo la strada che l’ha portata fino a Londra, Waris si inoltra di nuovo nel deserto somalo, dove, tra le erbacce e le rocce bollenti, incontra i fantasmi che non ha mai affrontato. E lì, dopo aver riabbracciato la sua famiglia, accetta quello che le è successo. La mutilazione genitale, il terribile segreto che le impediva di vivere, diventa, adesso, solo un filo della sua storia: un filo che Waris sente il bisogno di allungare, ispessire, e disperdere, così da farlo intrecciare con quello di tante altre giovani donne come lei. Riconoscendo i valori della propria cultura e condannandone aspramente i limiti, Waris decide di regalare la sua testimonianza al mondo intero, risvegliando per la prima volta l’attenzione generale sul tema dell’infibulazione: il tempo non potrà cancellare le sue cicatrici, ma potrà evitare che nuovi segni si formino sui corpicini delle neonate del presente.  

Waris Dirie, il cui nome significa “Fiore del Deserto”, è nata nel deserto nel 1965, ed è, oggi, una modella e scrittrice somala che lotta per i diritti delle donne. Nel 1998, insieme a Cathleen Miller, pubblica la sua autobiografia, che viene poi trasposta in pellicola nel 2009 da Sherry Hormann. Per il suo lavoro di attivista umanitaria, è stata nominata ambasciatrice delle Nazioni Unite contro la mutilazione dei genitali femminili.  

Il film che, una sera qualunque, mi ha reso partecipe della storia di Waris ha attraversato la mia anima e ha scosso ogni fibra del mio sentire. Nonostante il fenomeno dell’infibulazione si sia notevolmente ridimensionato, ancora oggi si calcola che, ogni anno, due milioni di ragazze vengono mutilate. C’è chi sopravvive, come Waris, tra sofferenze atroci, e chi muore di febbre, di parto, o di dissanguamento. E, tuttavia, la consapevolezza che una bambina di tredici anni è riuscita, davvero, a fuggire dalla tragedia, infonde in me un inquantificabile senso di fiducia. Nel tentativo di ridefinire la sua identità, Waris è riuscita a trasformare una lacerazione fisica e psicologica in una missione identitaria: salvando altre vite, ha salvato sé stessa, e ha riscattato la bambina che aveva lasciato in Africa il giorno della sua partenza. È riuscita, nonostante ogni mancanza, ad affermarsi come modella, come amica, come attivista, come donna. Forse, come credeva sua nonna, è stato davvero un dio a guidarla nel caldo torbido del paesaggio africano; o forse, come ha fatto Waris, bisogna solo cominciare a credere che ogni sofferenza nasconde la possibilità di una rivincita. Che anche il deserto più arido custodisce, sepolti, i semi di un nuovo fiore. 

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Currently a first-year student in BEMACC, I grew up on the pages of the great Classics and the Italian songs of the Seventies: I look at the present through the eyes of a person who is still wandering into those timeless dimensions. I am deeply in love with Fëdor Dostoevskij and Fabrizio De André.

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