La tortura è stata, nei secoli passati, uno strumento utilizzato dagli Stati come forma di ricerca di prove di colpevolezza all’interno di un sistema processual-penalistico di stampo puramente inquisitorio. La ratio era quella secondo cui, in un bilanciamento di valori, dovesse essere preferita la dura repressione dei reati – soprattutto quelli contro lo Stato – alla salvaguardia dell’integrità fisica e psichica dell’uomo. Il periodo illuministico ha portato con sé il pensiero di grandi filosofi come Cesare Beccaria ed i fratelli Alessandro e Pietro Verri, che furono i primi ad interrogarsi sui limiti della forza reprimente dello Stato. Solo dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, però, furono gli Stati stessi a decidere di porsi delle limitazioni comuni e a sanzionare chi violasse tali obblighi: nasce così la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Introduzione storica alla tortura
L’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) proibisce la tortura e il trattamento (o pena) disumano o degradante.
Il divieto di tortura e di trattamento inumano o degradante costituisce uno dei traguardi più importanti delle società moderne.
Nei sistemi giuridici e statali del passato, la tortura era a tutti gli effetti la tecnica per eccellenza di ricerca e di formazione della prova all’interno del sistema processual-penalistico di stampo puramente inquisitorio.
La giustificazione che veniva data all’inflizione di tali supplizi si basava fondamentalmente sulla necessità del potere pubblico di avere una forza altamente repressiva dei delitti, in particolar modo quelli che andavano a minare la solidità di quest’ultimo. L’interesse pubblico alla punizione del colpevole era infatti considerato prioritario rispetto all’ingiustizia e all’inumanità dello strumento utilizzato. Non solo si voleva proteggere il potere costituito da possibili attacchi esterni o interni, ma attraverso la tortura si istituiva un vero e proprio regime di rigidità e superiorità dell’ente inquisitore rispetto alla controparte e, soprattutto, rispetto alla legge. Se, da un lato, questo atteggiamento dell’autorità inquirente portava ad uno status di superiorità, come detto, esso però portava spesso l’imputato a commettere un altro reato, ossia quello della falsa testimonianza; infatti, spesso accadeva che il prigioniero confessasse delitti non compiuti da lui pur di porre fine ai supplizi, e d’altra parte era pure altrettanto possibile che il vero colpevole venisse scagionato a causa della propria capacità di resistere alle torture, dando così prova di (falsa) innocenza.
L’art. 3 e la tortura
Ad oggi, il divieto sancito dall’art. 3 della Convenzione rappresenta un elemento costante in tutti gli strumenti internazionali di tutela dei diritti dell’uomo e in gran parte delle Costituzioni moderne; come tale la Corte ha più volte ribadito l’importanza del divieto definendolo “un principio fondamentale delle società democratiche” (Soering c. UK, 1989) [1].
Il caso Soering c. Regno Unito (1), nel quale per la prima volta la Corte EDU utilizzò tale definizione, concerneva il caso di estradizione di un cittadino europeo negli Stati Uniti, dove avrebbe subito la condanna alla pena di morte per aver commesso omicidio. I giudici, nella giustificazione della sentenza, hanno riconosciuto l’importanza dell’articolo 3, affermando che esso rappresenta uno standard accettato a livello internazionale, citando il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) e la Convenzione americana sui diritti umani del1969.
A partire dal 1989, data della suddetta sentenza, i giudici hanno cristallizzato questo principio, dapprima in maniera più sporadica, poi via via sempre più sistematica.
È interessante notare che la norma in analisi, oltre ad essere una delle più scarne da un punto di vista puramente testuale, ma decisamente non da un punto di vista contenutistico, è anche l’unica norma della Convenzione che non prevede eccezioni o deroghe: il divieto non trova impedimenti d’azione neppure in circostanze gravi quali la lotta al terrorismo o alla criminalità organizzata. I giudici, infatti, nella sentenza Chahal c. Regno Unito [2], hanno affermato il principio secondo cui nessuna circostanza, comprese la minaccia di terrorismo o le preoccupazioni per la sicurezza nazionale, può giustificare l’esposizione di un individuo al rischio concreto di tali violazioni di diritti umani.
Nella faccenda in questione, il governo del Regno Unito era intervenuto nel caso per cercare di opporsi al divieto assoluto di tortura e maltrattamenti, sostenendo che il diritto di una persona ad essere protetta da tale trattamento all’estero doveva essere temperato rispetto al rischio in cui l’individuo aveva posto lo Stato che lo stava allontanando. La Corte ha rigettato questa tesi ritenendo che la Convenzione europea proibisse, in ogni circostanza, l’espulsione verso Paesi in cui vi fosse il rischio di tortura e maltrattamenti, valorizzando il carattere assoluto dell’art. 3 della Convenzione EDU.
Nel corso degli anni, la giurisprudenza ha intrapreso un percorso evolutivo della norma in modo da ricomprendervi al suo interno nuove forme di tutela: l’art. 3 è diventato un modello di tutela richiamato nelle più recenti Carte sui diritti umani, come la Carta europea dei diritti dell’uomo e la Carta di Nizza, la quale ha adottato le precise parole della norma nel suo quarto articolo, così da richiamare il divieto nel panorama europeo.
Ambito di applicazione dell’art. 3: criterio della territorialità
Come capire, però, a chi dev’essere applicato l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e attraverso quale criterio? La risposta ci viene direttamente fornita dalla norma di apertura della Carta: l’art. 1 della Convenzione EDU stabilisce infatti che ogni persona soggetta alla giurisdizione di uno Stato membro gode dei diritti sanciti nella Carta.
Per quanto riguarda, invece, l’applicazione extraterritoriale dell’art. 3, la norma prevede che in caso di estradizione, espulsione o allontanamento dal territorio di uno Stato firmatario, sussiste un obbligo positivo per tale Stato di assicurarsi che il soggetto allontanato non rischi di subire un trattamento contrario all’art. 3 stesso. Il rischio deve essere attuale e concreto, come si evince dalla già citata sentenza Soering c. Regno Unito 1.
Dottrina e giurisprudenza hanno influenzato il concetto di ragioni sostanziali ed effettive (in riferimento al rischio di maltrattamento all’estero), tanto che la Corte con un’interpretazione ancora una volta estensiva, ha progressivamente adottato un approccio più garantista verso la persona oggetto della misura di allontanamento, riducendo la soglia minima di rischio ai fini dell’individuazione della violazione [3].
Nella sentenza Saadi c. Italia [4], la Corte ha riconosciuto una responsabilità dello Stato per il solo fatto di avere esposto un individuo al rischio di violazioni.
Secondo un’interpretazione letterale dell’art. 3, la Corte ha poi stabilito che essa abbia sia un’applicazione verticale, ossia che essa vieti atti di tortura o trattamenti o pene disumani e degradanti commessi da organi nazionali, sia un’applicazione orizzontale, riconoscendo dunque una responsabilità statale anche in caso di violazioni compiute nella sfera privata e non più pubblica.
La situazione in Italia: da Bolzaneto ad oggi
Il 26 ottobre 2017 la Corte di Strasburgo ha pubblicato tre nuove decisioni concernenti gli ormai noti fatti inerenti alla repressione delle contestazioni no-global durante il G8 che si tenne a Genova nel 2001. In particolare, le sentenze Azzolina ed altri c. Italia e Blair ed altri c. Italia – riguardanti i casi di tortura nella caserma-carcere di Bolzaneto – hanno rappresentato “un campanello d’allarme che richiede importanti e urgenti azioni” [5] rappresentando un’occasione per incrementare la lotta alle condotte di tortura che hanno caratterizzato l’azione delle forze di polizia anche in Paesi rispettosi dei diritti fondamentali come l’Italia.
In primo luogo, bisogna ricordare che l’art. 3 CEDU vieta due diverse tipologie di condotta: da un lato è posto a tutela dei soggetti che si trovino in una condizione – non solo di reclusione – “inumana o degradante”; dall’altro invece sancisce, in maniera perentoria, che “nessuno può̀ essere sottoposto a tortura”.
Può essere quindi facilmente inteso come, per la Corte di Strasburgo, la tortura non abbia mai rappresentato una condotta codificata, stabilita ex ante su determinati parametri, bensì basata sull’elasticità del giudizio in merito a condotte che possono a seconda della loro intensità, gravità ed intenzionalità rientrare nel disposto dell’articolo 3 [6].
Tale interpretazione è strettamente legata alla lettura che, da sempre, a Strasburgo è stata data del concetto di “tortura”: non una condotta isolata a danno dell’integrità fisica, psicologica o mentale della vittima, bensì una forma decisamente più grave, percepita ovvero inflitta come trattamento inumano e degradante. In questa chiave di lettura, la tortura non risulterebbe essere quindi una condotta distaccata dal suo contesto, piuttosto l’apice di gravità di azioni comunque illecite e perseguibili penalmente.
La Legge 110/2017 ha dato seguito all’invito della Corte di Strasburgo del 2015 a dotarsi di strumenti idonei ed efficaci per il contrasto di tutte le possibili condotte in violazione dell’art. 3 CEDU che in Italia ancora non erano qualificabili come autonomo reato di tortura. Proprio in tale ottica la legge ha tentato di porre rimedio a quella che poteva essere definita una vera e propria “falla” del sistema italiano, fondato su principi che nulla concedevano a condotte assimilabili alla tortura ma incapace di combatterle in quanto privo di strumenti idonei a farlo.
È accaduto frequentemente che le condotte astrattamente sussumibili nella nozione di tortura siano rimaste impunite sia per l’assenza della fattispecie incriminatrice, sia per effetto della prescrizione applicabile alle più miti fattispecie di reato ascritte (lesioni, percosse, violenza privata, minacce, abuso d’ufficio). Oggi, ad ogni modo, come ha ben ricordato il Garante nazionale dei detenuti nel comunicato stampa già citato, “l’introduzione del reato di tortura nel codice penale consente al nostro paese di rispondere in maniera adeguata a gravi violazioni dei diritti umani come quelle avvenute nei casi delle due sentenze Azzolina ed altri e Blair ed altri c. Italia.”
Già nella sentenza Cestaro c. Italia del 2015, fra l’altro, la Corte EDU aveva fatto presente che la tutela degli individui rispetto a condotte assimilabili alla tortura imponesse di garantire loro forme di ristoro concreto, cioè in nessun caso meramente economico bensì sempre fondato prima di tutto sul perseguimento dei colpevoli.
La Corte EDU ha voluto dunque sottolineare la particolare gravità dei fatti in ragione del loro svilupparsi a danno di soggetti posti sotto il diretto controllo delle forze di polizia. Quindi, ripercorsi dettagliatamente gli abusi ai quali le vittime sono state sottoposte, i giudici di Strasburgo si sono soffermati sull’inefficienza repressiva del sistema italiano: anche dinanzi a fatti ampiamente provati in sede giudiziale, il nostro ordinamento non era stato capace di portare a termine un iter processuale che conducesse alla condanna dei colpevoli, i quali avevano invece potuto beneficiare della prescrizione ovvero, in alcuni casi, addirittura della concessione dell’indulto.
La Corte ha inoltre voluto stigmatizzare la grave responsabilità di tutta la catena di comando coinvolta: non solo è stato specificamente confermato quanto già statuito dalla Corte di Cassazione italiana [7] in merito alla responsabilità diretta, quantomeno in forma omissiva [8], di coloro i quali erano transitati all’interno della caserma di Bolzaneto, ma è stato soprattutto sottolineato come le forze di polizia italiane abbiano violato il proprio dovere di proteggere i soggetti sottoposti alla loro giurisdizione garantendone non solamente i diritti strettamente procedurali, ma ancor di più tutelandone e garantendone la dignità.
In questo senso, infine, la Corte ha voluto rappresentare la violazione dell’art. 3 CEDU non solamente quale effetto delle gravi violenze dirette sulle vittime ma anche quale conseguenza dell’ulteriore violazione del dettato convenzionale attraverso l’esposizione all’uso incontrollato e illegittimo della violenza anche nei confronti delle altre vittime degli stessi abusi, fattore che ha definitivamente certificato il superamento della linea di confine esistente fra “trattamenti inumani o degradanti” e “tortura”.
È necessario a questo proposito prendere atto di come, ancora una volta (si veda il caso delle sentenze Sulejmanovic c. Italia del 2009 e Torreggiani ed altri c. Italia del 2013 in materia di sovraffollamento carcerario), l’ordinamento italiano aveva avuto necessità di una forte spinta dall’ordinamento convenzionale (e quindi sovranazionale) per giungere a modificare il diritto interno conformandolo a principi di tutela della persona, nonostante tali stessi principi siano chiaramente contenuti anche nella Carta costituzionale italiana come ha da ultimo ricordato la Corte costituzionale, ribadendo che: “l’art. 2 Cost., nell’imporre alla Repubblica il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili […] delinea un fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e il valore della persona” [9].
L’introduzione di rimedi all’interno dell’ordinamento italiano: il rimedio risarcitorio presso l’Ufficio di Sorveglianza
Spesso accade, di fatto, che le carceri italiane siano sovraffollate. Questo annoso problema non è di certo nuovo alle orecchie dei giudici della Corte EDU, men che meno ai magistrati presso gli uffici di sorveglianza dei tribunali italiani. Come già detto in precedenza [10], il sovraffollamento carcerario rappresenta motivo di ricorso presso la Corte EDU, ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione.
Cosa succede, quindi, se un condannato lamenta condizioni o trattamenti disumani o degradanti?
Attraverso il D.l. 92 del 26 giugno 2014, il legislatore italiano ha introdotto nell’ordinamento penitenziario [11] l’art.35ter che prevede rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU.
Coloro che hanno subito un trattamento non conforme ai criteri stabiliti dalla Convenzione per un periodo di tempo non inferiore a quindici giorni possono ottenere, a titolo di risarcimento del danno, la riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari ad un giorno per ogni dieci durante i quali è avvenuta la violazione del loro diritto e della loro dignità.
I soggetti che hanno espiato una pena inferiore ai quindici giorni e coloro che non si trovano più in stato di detenzione (o la cui pena ancora da espiare non consente la detrazione per intero del beneficio appena descritto), invece, hanno diritto ad un risarcimento pari ad 8,00 euro per ciascun giorno di detenzione trascorsa nelle suddette condizioni.
I detenuti e gli internati che subiscono o hanno subìto – assumendo quindi un’applicazione retroattiva della norma – un trattamento in violazione dell’art.3 della Convenzione possono chiedere un rimedio risarcitorio: la Corte EDU individua in proposito, oltre allo spazio fisico disponibile per ogni singola persona detenuta o internata, altri indicatori, come l’impossibilità di utilizzare la toilette in modo privato, l’impossibilità o l’inaccessibilità all’areazione, l’impossibilità all’accesso alla luce e all’aria naturali, la scarsa qualità del riscaldamento e la mancanza di rispetto delle regole sanitarie di base. Il reclamo può essere presentato dal detenuto o dall’avvocato che sia munito di procura speciale.
In particolare:
- La persona detenuta o internata deve presentare, assieme al reclamo giurisdizionale per condotta illecita dell’amministrazione al magistrato di sorveglianza che ha giurisdizione sull’istituto di pena dove l’interessato è detenuto o internato, la richiesta di rimedio risarcitorio.
- La persona non più detenuta e che ha finito di espiare la pena detentiva in carcere, deve presentare la richiesta di rimedio risarcitorio al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio ha la residenza entro sei mesi dal termine della detenzione o della custodia cautelare in carcere.
Una volta compiuti questi aspetti formali e procedurali, il tribunale in composizione monocratica [12] decide di accogliere o meno il provvedimento e, in caso positivo, quantifica e sancisce il risarcimento per il ricorrente sottoposto a misure in violazione dell’art. 3 CEDU.
Il risarcimento consiste in uno sconto di pena pari a un giorno di detenzione per ogni 10 giorni trascorsi in condizioni inumane se queste si sono protratte per almeno 15 giorni, a cui va sommata la somma di € 8,00 per ogni giorno vissuto in condizioni inumane, qualora il fine pena è tale da non consentire la detrazione dell’intero periodo vissuto in condizioni inumane, ovvero la somma di € 8,00 se il periodo di detenzione espiato in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art.3 sia stato inferiore a 15 giorni.
In altri termini, se il fine pena consente la detrazione dalla pena stessa di un giorno ogni dieci trascorsi in tali condizioni e il trattamento sia perdurato per più di quindici giorni, si applica tale decurtamento sommato ad un risarcimento di tipo pecuniario (€8,00 al giorno), in modo tale da ottenere una tutela sia reale che pecuniaria; invece, qualora il trattamento sia durato meno di quindici giorni, il condannato può richiedere il solo risarcimento, ottenendo una mera tutela pecuniaria. La stessa disciplina si applica a coloro la cui pena impedisce il decurtamento di un giorno ogni dieci passati in condizioni inumane e degradanti, come per i condannati all’ergastolo.
Rimedi Risarcitori dell’Ufficio di Sorveglianza Di Catanzaro
Per dare un’occhiata a quelli che sono i numeri dei rimedi risarcitori, ai sensi dell’art. 3 CEDU e dell’art. 35ter l.354/1975 (legge sull’ordinamento penitenziario), effettuati durante l’ultimo anno (10/10/2021 – 10/10/2022) dai magistrati di sorveglianza del Tribunale di Catanzaro, riporto di seguito la seguente statistica comparata:
Magistrato | Pendenti Inizio Periodo | Sopravvenuti | Accolti | Rigettati | Inammissibilità | Pendenti Fine Periodo |
CARE’ M. T. | 29 | 27 | 5 | 11 | 7 | 33 |
CERRA A. | 11 | 13 | 3 | 8 | 7 | 6 |
GALATI A. | 20 | 20 | 5 | 7 | 9 | 19 |
PEZZO A. | 1 | 9 | 0 | 1 | 0 | 9 |
TOTALI | 61 | 69 | 13 | 27 | 23 | 67 |
Alcuni riferimenti normativi
- art. 3 della CEDU
- art. 35 ter della legge 354/75
- art. 35 bis della legge 354/75
- art. 69 comma 6 lettera b) della legge 354/75
- art. 2 del d.l. 92/2014
Autore: Carlo Buccisano
[1] Corte EDU, sentenza Soering c. Regno Unito, 07.07.1989, riferimento n. 14038/88, §88.
[2] Corte EDU, sentenza Chahal c. Regno Unito, 07.07.1996, riferimento n. 22414/93, §79 e ss.
[3] L. Cassetti, Diritti, principi e garanzie sotto la lente dei giudici di Strasburgo, 2012
[4] Corte EDU, sentenza Saadi c. Italia, 28.02.2008, ricorso n. 37201/06, §126.
[5] Relazione al Parlamento, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale, 26.10.2017
[6] Corte EDU, sentenza Irlanda c. Regno Unito, 1978
[7] Cass. pen., sez. V, sent. n. 3708813/2013
[8] ex art. 40 c.p.
[9] Corte costituzionale, sentenza n. 258/2017
[10] Corte EDU, sentenze Sulejmanovic c. Italia (2009) e Torreggiani ed altri c. Italia (2013)
[11] Legge 354/1975
[12] Ex artt. 737 e ss. C.p.c.
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