Da qualche mese, il titano dei media Mark Zuckerberg ha annunciato l’avvento di Meta, una nuova dimensione digitale che annullerà ogni distanza e ogni limite. Grazie ad un rapido e continuo processo di rinnovamento, la tecnologia è diventata una pilastro costitutivo del mondo moderno; è forse necessario, però, soffermarsi sul senso del suo vertiginoso progredire.
In data 28 ottobre 2021, attraverso un comunicato virtuale, mezzo perfettamente coerente con la natura del messaggio, l’ex studente di Harvard Mark Zuckerberg ha annunciato che la sua storica “Facebook Inc.”, al vertice delle piattaforme social da tempo immemore, rinasce, dopo un processo di ridefinizione, più moderna, più futuristica, più visionaria, e con un nuovo nome: “Meta”. Anche il logo cambia: la famosissima “f” blu si curva nella forma di un infinito, sempre, in continuità, blu.
Etimologicamente, il termine “Meta” non è altro che la sostantivazione della piucchecclassica preposizione greca meta (meta), ovvero “oltre”, “al di là”. È infatti l’”oltre”, non identificato e indefinito, la meta della nuova versione della compagnia; l’infinito, l’incommensurabile misura, il limite interminabile. “Meta”, nell’accezione che gli conferisce il suo fondatore, sta infatti per “metaverso”, cioè una dimensione virtuale, ideata dall’uomo per l’uomo, che plasma liberamente lo spazio-tempo e in cui la distanza, fisica e temporale, viene eliminata. Un mondo abitato da avatar 3D, realistici e non, a cui è garantita la possibilità di creare altre inter-realtà dentro la macro-realtà, come la propria abitazione (con funzione non solo di spazio personale, ma anche di deposito per i digital goods e di rampa di lancio per il teletrasporto), un ristorante subacqueo, una ditta che ha sede nello spazio. Il tutto attraverso un nuovo tipo di rete, “an embodied internet”, e con lo scopo ultimo di dare vita un’esperienza immersiva e totalizzante, quindi promuoverla a tal punto che verrà attribuito un valore monetario reale alle proprietà “collocate” in tale bolla digitale e che diventerà routine proporre: “Hai voglia di prenderti un caffè nella Parigi settecentesca?”
Il “metaverso” è il sogno di generazioni. Dopo aver conquistato tutto quello che di conquistabile esiste sul Globo – l’acqua, la terraferma e l’aria –, l’umanità si è ripromessa di invadere l’universo: ma lo sbarco sulla Luna non le è bastato. Da tempo, Letteratura e Cinema fantasticano su una possibile (e avvincente) globalizzazione delle galassie, sebbene anche questo orizzonte appaia, ormai, quasi insoddisfacente: basti pensare alla curiosità avida di Dr. Strange, uno dei protagonisti della Marvel, che, non contento della nostra dimensione, si lancia alla scoperta di un mondo illimitato e sconosciuto (tra l’altro, chiamato quasi allo stesso modo: “multiverso”). Ma allora perché il pensiero prolungato e costante di una sconfinata dimensione digitale genera un sottile, quasi impercettibile, senso di inquietudine? Perché dal progetto titanico di Zuckerberg si avverte un’implicita sensazione di impotenza, di rassegnazione?
La nostra realtà è, innegabilmente, una commistione di reale e virtuale: sarebbe impensabile ritornare ad una quotidianità dove la tecnologia esercita un ruolo marginale. Quando ci svegliamo, guardiamo il cellulare; prima di addormentarci, guardiamo il cellulare; i nostri rapporti, in misura non indifferente, si svolgono per via telematica. È una verità consolidata, a cui quasi non facciamo più caso. L’universo digitale rappresenta, ormai, un mondo speculare e parallelo a quello concreto, intangibile, sì, e astratto, ma di estrema importanza; gli apparecchi elettronici ne costituiscono la porta di accesso. Un computer, quindi, o qualsiasi altro dispositivo, fa da separatore tra l’utente fisico – vivo, reale e posto all’esterno – e una gamma illimitata di contatti racchiusa, paradossalmente, in un oggetto. Le piattaforme virtuali ci eleggono padroni della nostra immagine: attraverso la configurazione di un avatar o, più semplicemente, di un profilo, proiettiamo sullo schermo una personalità alternativa, un nostro equivalente digitale, un clone: un doppio, insomma.
Ed è qui che occorre fermarsi. Lo scrittore siciliano Luigi Pirandello, premio Nobel nel 1934, aveva riflettuto a lungo sul pericoloso dualismo tra l’essenza dell’individuo e la sua apparenza. Il caso più estremo è quello di Vitangelo Moscarda, protagonista del romanzo “Uno, nessuno e centomila”, che vive tragicamente il distacco tra la persona che lui crede di essere e la persona che gli altri credono che lui sia. La consapevolezza di avere un doppio e l’impossibilità di far combaciare sé stesso con la sua immagine-specchio sconvolgono la vita di questo antieroe letterario, che viene confinato in un manicomio. La stessa incolmabile distanza intercorre tra mondo reale e mondo virtuale: internet è, effettivamente, il doppio del reale, ma non solo; ne è un doppio esasperato perché opposto, nella sua essenza e nella percezione che abbiamo di esso, alla natura degli uomini; un reale irreale, quindi. Siamo esseri finiti, corporei, che esistono hic et nunc; percepiamo il mondo tramite i sensi, la concretezza è parte di noi. Ciò che avviene al di là di uno schermo non esiste realmente: l’immersione in qualcosa di così indefinito è, anzi, per noi ontologicamente innaturale. Oggi, si è talmente assuefatti all’interdipendenza tra realtà e tecnologia che non si distingue più dove inizia l’una e dove finisce l’altra: così facendo, però, corriamo il rischio di alienarci da noi stessi. È dunque necessario comprendere che le due sfere sono diverse e distinte; che internet è un utile strumento, non l’opportunità di una vita complementare. Quello che l’uomo, da secoli, fatica ad accettare, è la sua fondante limitatezza: l’ideale ellenistico di ὕβϱις (hybris), tracotanza, non costituisce più un peccato capitale, un monito; l’insaziabilità è, piuttosto, considerata una virtù. Si punta all’irrealizzabile, ad un progredire spregiudicato e senza destinazione: tuttavia, per quanti passi avanti possa fare la ricerca, la proposta di Zuckerberg non potrà mai rappresentare una valida alternativa alla vita concreta perché, intrinsecamente, un mondo totalmente digitale non potrà mai sostituire in tutto e per tutto un mondo reale.
Che fare, allora, per riuscire a vivere serenamente questo presente ormai ibrido? Dovremmo forse rinnegare del tutto la tecnologia per isolarci in un nostro microcosmo a sé stante, seppur autentico, un po’ come fece il Moscarda? Non ce n’è bisogno: basta mantenere la lucidità di distinguere ciò che è qui e ciò che è meta, “oltre”. Allo stesso modo di un altro protagonista pirandelliano, Belluca, che, ogni tanto, sentiva il treno fischiare.
Currently a first-year student in BEMACC, I grew up on the pages of the great Classics and the Italian songs of the Seventies: I look at the present through the eyes of a person who is still wandering into those timeless dimensions. I am deeply in love with Fëdor Dostoevskij and Fabrizio De André.
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